3. SÉ E INTERCORPOREITÀ: SINTONIZZAZIONE COME BASE DELL’INTERSOGGETTIVITÀ

3.1. Compromissione dell’esperienza di 

La fenomenologia riscontra nell’autismo il difetto della vulnerabilità schizofrenica e la nucleare espressione della patologia, osservandola alla luce di un’abnormità del rapporto sintonico di base della presenza umana con la vita e con le situazioni sociali. La sintonizzazione con l’ambiente riflessa dal senso comune è un’esperienza pre-concettuale e pre-riflessiva del Sé in rapporto con il proprio mondo, il quale dona un significato possibile agli oggetti fisici e psichici della vita grazie alla loro condivisione da parte della comunità degli Altri di cui il soggetto fa parte. Il Sé, in quanto uno degli attori principali di questa comunicazione, assume una grande importanza nel discorso sulla schizofrenia e sul suo difetto di base, ma è appunto “uno” dei partecipanti all’interazione: l’altro attore primario è il mondo in cui tale Sé agisce e esperisce se stesso. 

Come emerge dalle teorizzazioni di diversi autori nel corso del tempo[1], coscienza e senso di sé come istanze possono emergere ed essere comprese solo in un contesto intersoggettivo di co-costituzione. Un problema a livello di tale co-costituzione del Sé e del mondo interpersonale è legato al difetto autistico (Bovet e Parnas, 1993).

Le profonde alterazioni del Sé presenti nel disturbo schizofrenico sono riconosciute da molto tempo, già da Kraepelin (1889) e Bleuler (1911). Lo psichiatra tedesco parlava di “perdita dell’unità interiore” e di “un’orchestra senza direttore” mentre lo psichiatra svizzero sottolineava come l’io del paziente sottenda le più diverse modificazioni inerenti la patologia. Il disturbo del Sé come indicatore del nucleo della vulnerabilità psicotica (in particolare schizofrenica) è stato sottolineato dalle ricerche e dagli studi di stampo fenomenologico, che hanno osservato come gran parte della sintomatologia schizofrenica possa di fatto essere considerata un riflesso di una compromessa esperienza di sé. Una coscienza di sé disturbata è da tempo riconosciuta nella patologia psicotica, ma così non sembra in un certo tipo di psichiatria: nei criteri diagnostici sia del DSM-IV-TR (APA, 2000) che dell’ICD-10 (OMS, 1996), il Sé non viene nemmeno menzionato[2]. In realtà però la descrizione della patologia schizofrenica come “disturbo dell’esperienza di sé” è frequente nella psicopatologia descrittiva (come abbiamo visto persino Kraepelin, della cui impostazione l’attuale nosografia psichiatrica è erede, si esprimeva in questi termini) e l’assenza può essere puramente terminologica o dovuta ad un diverso modo di intendere i termini Sé, coscienza, soggettività (Sass e Parnas, 2003; Stanghellini, 2006; Nelson et al., 2008).

E allora qual è il significato, l’essenza delle nozioni di Sé, coscienza e soggettività? 

3.2. L’ immersione nel mondo

Quando sentiamo parlare del “Sé”, siamo abituati a considerarlo come un qualcosa, “staccato” da un qualcosa d’altro, con il quale può però relazionarsi: un soggetto “staccato” dagli oggetti esterni del mondo in cui abita. Questo modo di vedere la propria soggettività è veicolato da diverse tradizioni filosofiche che hanno condizionato il nostro punto di vista, ad esempio la concezione cartesiana della divisione tra res cogitans e res extensa in cui la divisione fra mente (psichica) e corpo (fisico) ricalca quella fra soggetto (pensante) e oggetti (mondo esterno). La filosofia fenomenologica, da cui nasce e si evolve prendendo la propria strada la psicopatologia fenomenologica, si distanzia da questo modo di intendere Sé e ambiente, e con Heidegger (1927) l’accento è posto sull’immersione costante del soggetto nel mondo. L’essere umano, nel suo essere nel mondo, non si pone come un soggetto che lo osserva dall’esterno, ma che lo “indossa” (Henriksen et al., 2010).

Il Dasein heideggeriano (l’“Esser-ci”, essere-nel mondo) è l’uomo che nel suo esistere è sempre situato nel suo mondo, e il mondo è un carattere stesso del Dasein (Heidegger, 1927).

Da questa concezione muove anche Binswanger, che così ne spiega l’importanza per una modifica di prospettiva rispetto alla visione dicotomica cartesiana: 

“Essere-nel-mondo significa essere-nel-mondo con i miei simili, essere insieme con le altre presenze (Mitdaseinde). Heidegger postulando l’essere-nel-mondo come trascendenza, non soltanto ha superato la scissione tra soggetto e oggetto della conoscenza, non soltanto ha colmato lo hiatus tra io e mondo, ha anche illuminato la struttura della soggettività come trascendenza, ha aperto un nuovo orizzonte di comprensione e ha dato impulso nuovo all’indagine scientifica dell’essere dell’uomo in genere e sui particolari suoi modi di essere. È chiaro dunque – e ciò mi preme particolarmente sottolineare – che in luogo della scissione dell’uomo in soggetto (uomo, persona) e oggetto (cosa, ambiente) subentra qui garantita nella trascendenza, la unità tra presenza e mondo” (Binswanger, 1947, trad. it. 1973, p. 23). 

Ciò avviene nell’incontro con ogni oggetto del nostro ambiente, da quelli fisici a quelli psichici, da quelli materiali a quelli emozionali, dagli ogetti di uso comune alle persone: ogni volta che ci relazioniamo a qualcosa, lo facciamo non in un modo per così dire “contemplativo”, in cui osserviamo l’oggetto come isolato dal contesto, ma lo sentiamo come parte di un tutto funzionale, che significa qualcosa per noi e per la nostra relazione con il mondo. Questa caratteristica forma di rapporto è facilmente osservabile nella vita pratica di ogni giorno nella quale, per la maggior parte del tempo, non incontriamo gli oggetti in una cornice distaccata in cui ciò che immediatamente esperiamo sono le caratteristiche degli oggetti stessi, ma piuttosto ciò che accade è che essi ci appaiono (immediatamente) già nella loro relazione con il mondo: ad esempio un computer, una sedia, un libro vengono visti immediatamente non nelle loro caratteristiche (una forma quadrata, un oggetto con quattro gambe, una copertina blu), ma come degli strumenti che possiamo utilizzare per navigare in internet, sedersi, leggere o, a seconda della situazione, dell’ambiente in cui ci troviamo immersi, per fare un solitario, fermare una porta, sostenere un tavolo traballante. Da questo punto di vista il Sé non ha una relazione con il mondo, ma è esso stesso la relazione. (Henriksen et al., 2010)

Ciò, come già detto, accade nell’incontro con ogni oggetto del mondo, sia esso interno o esterno, e dunque riguarda anche la relazione del Sé con se stesso (autocoscienza, soggettività) e del Sé con gli Altri (intersoggettivita) (Stanghellini, 2009a). 

3.3. Coscienza: carattere intenzionale e livelli di analisi

La nozione di coscienza è stata nel corso del tempo trattata in modo contrastante nell’ambito filosofico, psicologico e scientifico: è passata da ruolo dominante nella speculazione scientifica e filosofica nei secoli passati (Cartesio, Locke, Hume, Kant, Hegel, ecc.), a oggetto di un forte discredito operato, non concertativamente, da più parti nel corso del secolo appena trascorso (psicologia comportamentista, psicoanalisi, neurobiologia), fino ad un nuovo balzo al vertice nel corso dell’ultimo decennio con un boom degli studi sulla coscienza in ogni ambito delle scienze sociali: filosofico, neuroscientifico, psicologico e psicopatologico. Non così è stato nell’ambito fenomenologico, particolarmente in quello clinico, in cui la ricerca sui disturbi della coscienza di Sè ha rappresentato uno dei principali terreni di studio della schizofrenia nel corso dell’intero Novecento (Stanghellini, 2009a).

Nell’ambito degli studi sulle psicosi la nozione di “coscienza” ha una grande importanza, ed avendo diversi livelli interpretativi, risulta fondamentale tentare di dare almeno l’abbozzo di una mappa di lettura. Gli usi del termine sono diversi a seconda del punto di osservazione in cui ci si pone (Stanghellini, 2009a): 

-       Nel linguaggio comune, il termine viene spesso a coincidere con quello neurobiologico di vigilanza (essere svegli). Nella vita di tutti i giorni viene definito cosciente un essere umano in grado di rendersi conto consapevolmente di quello che fa, pensa, sente, vuole.

-       Nel linguaggio comune il termine è utilizzato anche con un’accezione “teoretica” e “morale”: coscienza teoretica come conoscenza di sé stessi, dei propri vissuti e delle proprie esperienze; coscienza morale come giudizio di sé stessi, dei propri valori e dei propri modi di agire nel mondo.

-       Nel territorio della fenomenologia il termine assume un significato diverso dai primi due, suddivisibile ulteriormente in più livelli di analisi, pur profondamente embricati fra loro, la cui proprietà fondamentale è l’intenzionalità[3], ovvero: la coscienza è sempre diretta a qualcosa. Quello che facciamo non è amare, vedere, toccare, giudicare, temere e basta, ma amare, vedere, toccare, giudicare, temere qualcosa. L’intenzionalità ha un livello esplicito ed uno implicito, e in una lettura “ampia” del termine può essere vista come un’apertura al mondo degli oggetti (fisici e psichici). 

In fenomenologia la coscienza è suddivisibile in “coscienza fenomenica” e in “coscienza di sé”, e quest’ultima è ulteriormente distinguibile in “coscienza di sé minima” (pre-riflessiva, ipseità) e in “coscienza di sé narrativa” (Stanghellini, 2009a): 

-       Con il termine “coscienza fenomenica” viene indicata la consapevolezza soggettiva di qualcosa, sia essa un oggetto esterno del mondo o un aspetto di noi stessi. La “coscienza fenomenica” esprime, cioè, la nostra visione ed esperienza del mondo immediata: esperiamo le nostre percezioni sensoriali ed emozionali non attraverso la mediazione di rappresentazioni mentali, ma entriamo in contatto con l’ambiente in maniera automatica. Se osservo un fiore nel prato di fronte a casa mia, non ho la sensazione di percepirlo mediante una sua rappresentazione mentale o attraverso i processi neurologici che mi permettono la percezione in quanto tale: “percepisco” attraverso il mio apparato neurologico all’interno della mia testa, ma quello che vedo non è questo processo, vedo semplicemente il fiore nel prato di fronte a casa mia. Inoltre la “coscienza fenomenica” di un’esperienza si riferisce al punto di vista di chi sta facendo l’esperienza stessa ed è al titolare di tale prospettiva che l’esperienza appartiene: io vedo il fiore dal mio punto di vista, e tale percezione è una mia percezione.

-       La “coscienza di sé” o “autocoscienza” è la consapevolezza di sé mentre si è consapevoli del mondo (coscienza fenomenica). Mentre vedo il fiore sono consapevole di essere proprio io quello che sta vedendo il fiore in questo momento; l’esperienza percettiva è la mia e dal mio punto di vista, e contemporaneamente al mio essere cosciente di questo sono consapevole anche di essere io e nessun altro quello che la sta vivendo. Mentre percepisco attraverso i miei sensi, essi sono coscienti tanto di stare sentendo quanto di essere proprio loro e non quelli di un altro essere umano a sentire. Io sento di stare sentendo, io guardo e mi accorgo tanto di quel che guardo quanto di stare guardando. 

3.4. Ipseità e ribaltamento di prospettiva

Nella dissociazione fra questi due livelli di coscienza, la cui integrazione rappresenta il fondamento dell’essere e sentirsi un Sé, giace l’esperienza schizofrenica del mondo; in particolare ciò che viene a essere disturbato è il livello pre-riflessivo dell’auto-coscienza. La coscienza di sé è, come detto precedentemente, suddivisibile in due aspetti, di cui uno pre-riflessivo e l’altro riflessivo. Il primo è la coscienza di sé “minima” (o ipseità), il secondo è detto coscienza di sé “narrativa”. Quest’ultima presuppone la prima come condizione necessaria di possibilità. Essa è concettualizzabile come una conoscenza: la conoscenza di sé, la narrazione sensata della propria vita costruita in relazione a sé stessi e al mondo in cui essa si è svolta e si svolge. È un modo di conoscere se stessi che avviene mediante l’utilizzo della riflessione, non è un atto implicito, ma esplicito e concettuale. La coscienza di sé “minima” è un essere presente a se stessi di tutt’altro ordine: l’ipseità non è una conoscenza, ma un sentimento: il sentimento di sé. Essa è immediata e pre-riflessiva, e non è raggiunta tramite cognizione, introspezione o osservazione, ma è immediatamente data a se stessi, prima di ogni altra esperienza esplicita: è l’implicito sentimento di sé senza il quale nessun sé sarebbe possibile (Stanghellini, 2009a). La coscienza di sé minima non è un atto, un qualche cosa che facciamo volontariamente, ma qualcosa che semplicemente avviene. Riguarda non il senso di continuità della propria identità nel corso del tempo, campo del livello fenomenico della coscienza di sé, ma un sentimento più basico: riguarda propriamente la sensazione di simultaneità fra il sé e l’esperienza di quel preciso momento. L’approccio fenomenologico ipotizza che nell’esperienza schizofrenica i disturbi del sé si verifichino al livello basico dell’autocoscienza (ipseità), mentre altre patologie che implicano disturbi dell’esperienza del sé mostrano problemi nell’esperienza della continuità della propria identità: in soggetti che vivono disturbi della personalità (come nel disturbo borderline di personalità e disturbo narcisitico di personalità) è il livello della coscienza narrativa ad essere intaccato, mentre l’autocoscienza pre-riflessiva rimane generalmente intatta o poco disturbata (Sass e Parnas, 2003; Nelson B. et al., 2008). Psicopatologi di stampo fenomenologico, sulla base di dati provenienti sia da ricerche empiriche, che dalla propria esperienza clinica[4], hanno avanzato l’ipotesi che una coscienza pre-riflessiva disturbata sia un segno distintivo della vulnerabilità psicotica, schizofrenica in particolar modo (Nelson B. et al., 2008). La schizofrenia può essere allora vista come un disturbo dell’ipseità, cioè un disturbo nell’esperienza della prospettiva del mondo: da vissuto in prima persona esso diviene osservato in terza persona. La perdita del livello tacito, implicito, automatico, pre-riflessivo dell’esperienza del mondo (coscienza fenomenica) e della coscienza di sé (ipseità) ha delle conseguenze che possono essere definite attraverso due aspetti principali fra loro collegati (Sass e Parnas, 2003): 

-       Iperriflessività

Vi è un aumento spropositato dell’elemento riflessivo: i fenomeni impliciti emergono come espliciti e gli aspetti del sé vengono vissuti alla stregua degli oggetti del mondo esterno. Aspetti taciti della propria esperienza vengono oggettivati e “spinti fuori” nel mondo come in una centrifuga, fino ad essere sentiti come estranei e separati da sé 

-       Diminuzione del sentimento di sé

Si verifica un impoverimento nel sentirsi, nella sensazione di esistere e in quella di contemporaneità fra senso di sé e azione nel mondo: una frattura fra sentirsi e percepire simultaneamente. 

Queste due caratteristiche non sono da intendersi come processi separati, ma piuttosto come due aspetti dello stesso processo. Le due prospettive dell’esperienza del Sé nel mondo si ribaltano e si scambiano di posto e ciò che normalmente viene vissuto come tacito diviene esplicito e oggetto di riflessione; ognuno dei due fenomeni caratteristici descritti sopra enfatizzano punti differenti ma complementari di questo processo: l’iperriflessività amplifica l’elemento esplicito, la diminuzione del senso di sé riduce l’elemento implicito. Perdendo la connessione con sé il soggetto perde anche il proprio essere in connessione con il mondo. Come abbiamo detto precedentemente il Sé non ha una relazione con il mondo, ma è esso stesso la relazione: perdendo il contatto con la propria esperienza si viene tirati fuori dalla costante immersione nel mondo attraverso la quale siamo coscienti di noi stessi (Sass e Parnas, 2003; Nelson B. et al., 2008).

A questo punto la condizione schizofrenica appare radicata a due manifestazioni abnormi dell’esperienza umana tra loro interconnesse: da una parte troviamo le anomalie della sintonizzazione con il mondo in comune che portano alla dis-socialità caratteristica dell’autismo schizofrenico, dall’altra la disturbata autocoscienza che porta ad un’oggettivazione morbosa del proprio vissuto sensoriale, emotivo e corporeo. Questi due ambiti si condizionano l’un l’altro. La sintonizzazione emotiva, nella sua espressione normale o abnorme, ha influenza sulla strutturazione percettiva del Sé: una sintonizzazione disturbata può contribuire ad una sua destrutturazione, una sintonizzazione adeguata (es. la relazione terapeutica) può essere di aiuto ad una sua ricostruzione. D’altronde una coscienza di sé in crisi rende impossibile la sintonizzazione con gli altri e la prospettiva oggettivante dell’essere umano schizofrenico colpisce tanto la relazione con sé quanto quella con il mondo sociale. Il soggetto vive se stesso disincarnato, come scisso “cartesianamente” in spirito e corpo. Lo spirito è staccato, non vive le esperienze del corpo in prima persona, ma lo osserva muoversi nel mondo come un macchinario che funziona grazie a strani meccanismi a lui ignoti. Ciò avviene tanto per il proprio corpo quanto per quello degli Altri: anche gli Altri sono visti come macchine, incomprensibili perché sottostanti a meccanismi ignoti quanto quelli che governano le proprie esperienze sensoriali e percettive. Queste esperienze comprendono le interazioni sociali, le quali devono essere studiate per poter essere messe in pratica non intuitivamente mediante la sintonizzazione pre-riflessiva fra il mio Sé incarnato e quello dell’altro, ma riflessivamente mediante l’applicazione di regole estratte dall’osservazione del mondo. La ricerca di tali leggi è necessaria per colmare il vuoto laddove l’intutiva conoscenza implicita della vita viene a mancare. La sintonizzazione, connotandosi come requisito fondamentale per la costituzione del Sé e della coscienza, è pre-requisito necessario anche per la strutturazione dell’esperienza sociale e intersoggettiva (Stanghellini, 2006).  

Diventa a questo punto importante cercare di capire come il senso del Sé si sviluppi nell’essere umano: esso è sempre presente tale e quale dalla nascita? O la sua formazione è da inserire piuttosto nella cornice delle interazioni con il mondo e con gli altri esseri umani? Abbiamo detto che un’adeguata sintonizzazione emotiva nel contesto di una relazione può contribuire alla ricostruzione di un senso di sé destrutturato, allora forse il rapporto con l’ambiente può avere un ruolo anche nella strutturazione iniziale del Sé? 

3.5. L’importanza dell’Altro per la formazione del Sè

Negli ultimi anni la psicologia dello sviluppo si è distanziata dal modo di vedere dominante nel secolo scorso che voleva il bambino incapace di discriminare fra sé e non sé: tale visione si fondava particolarmente sulle importanti teorizzazioni di Piaget da una parte e della psicoanalisi, in particolare il ramo della psicologia dell’Io, dall’altra, ma evidenze empiriche hanno portato gli psicologi a proporre che i neonati hanno già fin dalla nascita un’abilità primitiva, di base, che gli permette di differenziarsi dal non sé. Lo sviluppo che porta da questa sorta di proto-sé alla pienezza del sé adulto è un processo complesso e legato intimamente all’intersoggettività (Parnas et al., 2002).

3.5.1. Stern e i quattro sensi del Sè

Questo processo di formazione del Sé è al centro della teorizzazione di Stern (1985), il quale parla di quattro diversi sensi del Sé ognuno dei quali definisce un diverso campo dell’esperienza soggettiva e ognuno dei quali si forma in un diverso campo di relazione fra sé e ambiente sociale. L’acquisizione man mano da parte del bambino di un nuovo senso del Sé, determinano conseguentemente modificazioni evolutive nell’esperienza sociale. Ogni nuovo senso del Sé ed ogni nuovo campo relazionale non vanno a sostituire il precedente, ma ad aggiungersi, e tutti i livelli rimangono attivi e operanti durante l’intero arco di vita. Nessun livello va perso e nessuno acquisisce una predominanza sull’altro a seconda dell’età, ma piuttosto si configurano come diversi aspetti della vita sociale, e se talvolta uno si trova in una posizione di rilievo rispetto all’altro, ciò dipende dalla specifica situazione e si prospetta perciò come esperienza momentanea. L’età è legata solo al momento della formazione di tali sensi del Sé (o prospettive soggettive organizzanti, descrittive della vita sociale del bambino), che avviene secondo uno schema descrivibile come segue. Le capacità del bambino seguono un percorso di maturazione, terminato il quale subiscono una trasformazione in quelle che Stern definisce prospettive soggettive e che definiscono ogni nuovo senso di sè. La riorganizzazione delle capacità infantili avviene grazie alle motivazioni del bambino, che non sono fisse e immutabili, ma dinamiche e discontinue. Ad ogni nuova prospettiva corrisponde un nuovo campo di relazione all’interno della quale il senso del Sé e dell’altro vengono organizzati e si incontrano. Ogni nuova relazione e ogni nuovo senso del Sé provoca un cambiamento qualitativo nell’esperienza sociale, e sono da intendersi non come fasi, ma come forme di esperienza che accompagneranno l’essere umano per tutta la vita. Una volta formatisi i sensi di Sé e il campo di relazione in cui si muovono, non si modificano, non maturano o si atrofizzano, ma permangono inalterati come tipologie differenti di esperienze relazionali emergenti nella vita sociale di ogni giorno; la nostra soggettiva esperienza sociale è il risultato dell’unione e integrazione dell’esperienza in tutti i campi di relazione. I sensi del Sé descritti da Stern sono: 

-        Il senso di un Sé emergente

Si forma alla nascita ed interessa i primi due mesi di vita, durante i quali i bambini, grazie alla precoce capacità di stabilire connessioni, sperimentano il processo di organizzazione delle esperienze che porterà alla formazione del Sé. Stern postula l’ipotesi secondo la quale il bambino non sperimenta solo il risultato a cui questo processo porta (il Sé) ma anche il processo stesso, ed è questa esperienza che chiama il senso di un Sé emergente, il quale incontra il senso dell’altro nel campo di relazione emergente. Il processo fondamentale che caratterizza questo processo e lo rende possibile è l’abilità primitiva della “percezione amodale”.  

-       Il senso di un Sé nucleare

Emerge dai due ai sei mesi, nel momento in cui il bambino sente di essere un’entità fisica separata dalla madre. Le esperienze che vengono vissute come differenti e che appartengono a questo stato del Sé, riguardano il livello per così dire fisico: un nucleo unitario di azioni, volontà e affettività ascrivibile alla mia esperienza è distinguibile da quello di un altro. L’esperienza interpersonale avviene tra questi “nuclei” in quello che viene definito il “campo di relazione nucleare”. 

-       Il senso di un Sé soggettivo

Si forma dai sette ai quindici mesi, quando il bambino “scopre” che oltre alla sua mente ne esistono altre. Il nucleo dell’esperienza include ora anche stati mentali quali sentimenti, motivazioni e intenzioni che possono influenzare e determinare quelli fisici del campo di relazione del livello nucleare. Questi stati mentali “invisibili” ma “immaginabili” che tanto il Sé quanto l’altro possono avere in mente, costituiscono il contenuto nuovo della relazione che avviene ora non più fra “nuclei” ma fra “soggettività” nel “campo di relazione intersoggettivo”. Sia questo che il campo di relazione nucleare, si trovano al di fuori della consapevolezza e della possibilità di verbalizzazione, e l’esperienza di entrambe le relazioni non può essere descritta pienamente, ma solo per “allusioni”. Il livello della relazione precedente permetteva il raggiungimento di un’intimità fisica, ora è possibile raggiungere anche quella psichica. 

-       Il senso di un Sé verbale

Si forma per ultimo intorno ai 15-18 mesi, nel momento in cui il bambino ha acquisito la capacità di creare e condividere significati riguardanti il Sé e il mondo. I contenuti della relazione, e il campo in cui viene a muoversi (il campo di relazione verbale), si allargano vertiginosamente e si spostano dal livello immediato e personale che caratterizzava gli altri campi, al livello astratto e impersonale del linguaggio. Il bambino ha la possibilità ora di raccontarsi e di estendere le proprie conoscenze, anche se l’acquisizione del linguaggio può essere vista come “un’arma a doppio taglio”: ciò che le parole possono esprimere non sempre coincide pienamente con l’esperienza da descrivere; certe sfumature e percezioni non sono trasformabili linguisticamente, soprattutto quelle appartenenti alle relazioni del campo nucleare e del campo intersoggettivo. Le parole non colgono la pienezza di tali sensazioni, e si verifica un divario fra la relazione come viene sentita e come è possibile comunicarla, tanto a noi stessi che agli altri. 

3.5.2. Qualità amodali e affetti vitali

Ognuno dei diversi processi che portano alla formazione di ognuno dei sensi del Sé sono di fondamentale importanza per una buona esperienza sociale. Ciò che primariamente rende possibile ciascuna successiva organizzazione delle esperienze, è la capacità innata del neonato della “percezione modale”, così descritta da Stern: 

“Sembra […] che i bambini possiedano una capacità generale innata, che possiamo chiamare percezione amodale, di ricevere l’informazione in una modalità sensoriale e tradurla in qualche modo in un’altra modalità sensoriale. Come lo facciano, non sappiamo. Probabilmente l’informazione non viene recepita in una particolare modalità sensoriale, ma trascende la modalità o il canale e si presenta in qualche sconosciuta forma sopramodale. Non si tratta dunque di un semplice problema di traduzione diretta da una modalità all’altra. È più probabile che si tratti di una codificazione in una rappresentazione amodale tuttora misteriosa, che può essere poi riconosciuta in ciascuna modalità sensoriale. I bambini sembrano sperimentare il mondo come un’unità percettuale, in cui sono in grado di percepire in ogni modalità sensoriale le qualità amodali in ogni forma di comportamento umano espressivo; sono capaci di rappresentare astrattamente queste qualità e poi di trasferirle in altre modalità” (Stern, 1985, pp. 66-67). 

Esemplificativo di questa capacità innata e di come essa contribuisca alla formazione di un senso del Sé emergente e di un altro emergente, è il rapporto del bambino con il seno materno. Il “seno visto” e il “seno succhiato” non sono all’inizio sperimentati come due seni separati e non in relazione tra loro, come affermerebbero sia le teorizzazioni piagetiane che molte teorie di stampo psicoanalitico, ma sono collegati fra loro grazie alla percezione amodale, che accoppia le sensazioni visive e tattili, e il seno nasce sin da subito come un’esperienza integrata di una parte dell’altro.[5] Alcune di queste qualità amodali costituitive dell’esperienza del mondo del neonato sono rappresentate da proprietà come forma, intensità, ritmo, movimento, numero, e altre sono costituite dagli affetti come rabbia, tristezza, felicità; in entrambi i casi esse sono attribuibili a persone e cose. Stern parla di un’ulteriore qualità dell’esperienza definita da quelli che chiama “affetti vitali”. Questi “affetti vitali” scaturiscono come le altre qualità amodali direttamente dagli incontri con gli oggetti del mondo (cose e persone), ma sono maggiormente “sfuggenti”, poco afferrabili e definibili da termini dinamici come: “fluttuare”, “svanire”, “trascorrere”, “esplodere”, “crescendo”, ecc. Questo tipo di sensazioni accompagnano continuamente la nostra vita e assumono particolare importanza nella vita del neonato, in quanto indotte anche da modificazioni emozionali e fisiologiche, come appetito e tensioni, che hanno un impatto sull’organismo in maniera quasi continuativa. Anche per questo è necessaria una distinzione dagli affetti per così dire “regolari”, i quali vanno e vengono mentre gli affetti vitali, che ce ne accorgiamo o meno, ci accompagnano costantemente. I bambini provano tali qualità da direzioni tanto interne quanto esterne e inizialmente il mondo sociale per il bambino è un mondo costituito essenzialmente dalle qualità amodali dell’ambiente: 

“Possiamo facilmente immaginare […] che un bambino all’inizio non sia in grado di percepire gli atti manifesti in quanto tali, così come li percepisce un adulto. (Questo atto è prendere il biberon. Quest’altro è spiegare un pannolino.) È più probabile che un bambino percepisca direttamente gli atti e cominci a raggrupparli per categorie a seconda degli affetti vitali che esprimono. […] il mondo sociale esperito dal bambino, prima di essere un mondo di atti formali, è soprattutto un mondo di affetti vitali. Lo stesso accade per il mondo fisico della percezione amodale, che non è un mondo di cose viste, ascoltate o toccate, ma è soprattutto un mondo di qualità che si possono astrarre, quali la forma, il numero, il livello di intensità e così via” (Stern, 1985, p. 72). 

Alla base degli affetti vitali, ci sono dei profili di attivazione, concettualizzabili come modificazioni schematizzate nel tempo, riferibili a qualsiasi comportamento o sensazione. Data quest’ultima caratteristica, una schematizzazione estratta da una certa sensazione può essere applicata ad un’altra sensazione o comportamento o stato mentale che provoca un profilo di attivazione simile, permettendo una corrispondenza intermodale tra esperienze anche estremamente differenti, a condizione che condivdano il medesimo affetto vitale (Stern, 1985). 

3.5.3. Imitazione, sintonizzazione affettiva ed empatia

Con lo sviluppo del senso di un Sé soggettivo, la relazione inizia a muoversi nel campo intersoggettivo, caratterizzato primariamente dalla compartecipazione degli stati affettivi, resa possibile da quella che Stern definisce sintonizzazione degli affetti. Durante i primi sei mesi di vita del bambino l’imitazione materna è il processo mediante il quale si costituisce l’esperienza nucleare e fisica della relazione, ma successivamente la madre inizia ad inserire delle sottili variazioni al suo comportamento di interazione imitativa con il figlio. Questo perché non è più sufficiente la sola imitazione: perché vi sia uno scambio degli affetti è necessario il verificarsi di diversi processi: 

-       Per prima cosa è necessario che la madre possegga la capacità di leggere nel comportamento manifesto del bambino i suoi sentimenti

-       Secondariamente la madre deve rispondere con un comportamento che corrisponda a quello osservato nel bambino, ma che non ne sia l’esatta imitazione

-       Per ultimo è indispensabile che il bambino sia in grado di leggere il comportamento di risposta materno come relazionato alla sua iniziale esperienza affettiva e cogliere la non imitatività del suo comportamento 

È questo comportamento materno nuovo, che va oltre l’imitazione, la sintonizzazione degli affetti concettualizzata da Stern. Sono le qualità dei sentimenti, le qualità amodali, ad essere espresse nei comportamenti di sintonizzazione affettiva, e non le qualità formali ed osservabili del comportamento, oggetto invece dell’imitazione, nella quale non è possibile per i soggetti in interazione risalire ai reciproci stati interni. Nella sintonizzazione la lente è puntata su quello che sta dietro il comportamento esteriore, sulla qualità degli stati mentali oggetto di condivisione. A questo punto però viene da chiederci perché sia necessaria l’introduzione di un nuovo termine per definire un processo che ci ricorda tanto l’empatia. Ma è proprio così? Sintonizzazione ed empatia sono solo due termini diversi per indicare uno stesso meccanismo di condivisione affettiva o qualcosa li differenzia giustificando l’utilizzo di parole diverse? La risposta risiede fondamentalmente in due contrapposizioni dicotomiche: consapevolezza e inconsapevolezza, automatismo e mediazione. Sintonizzazione ed empatia condividono la risonanza emozionale iniziale, ma non il percorso successivo. Mentre la prima è pressoché automatica e inconsapevole e riplasma l’emozione percepita in una diversa esperienza personale, l’empatia necessita di una mediazione cognitiva consapevole e porta ad una identificazione con l’esperienza emozionale iniziale (Stern 1985).

È su questo tipo di esperienza intuitiva e pre-cognitiva che si basa la comprensione degli altri, e che costituisce la condizione di possibilità per la comunicazione fra esseri umani. La sintonizzazione affettiva rende possibile percepire intuitivamente e pre-riflessivamente l’esistenza degli altri come nostri simili e di poter avere un accesso alla loro vita mentale ed emotiva mediante un contatto pre-verbale ed immediato (Stanghellini e Ballerini, 2007a).

3.5.4. Non solo Stern

Stern non è stato l’unico a sottolineare l’importanza del rispecchiamento del caregiver per la condivisione degli stati mentali e per lo sviluppo di un’adeguata capacità di partecipazione affettiva, e la rilevanza della qualità della relazione fra adulto e bambino per il pieno manifestarsi della capacità umana di sintonizzarsi intuitivamente con il mondo sociale; altri autori e altre prospettive teoriche, seppur con sfumature diverse, hanno sviluppato queste riflessioni: 

-       In Donald W. Winicott l’accento è sull’ambiente “sufficientemente buono” rappresentato dalle cure fornite da una madre adeguatamente sintonizzata sui bisogni del bambino. Egli afferma che le basi di una buona salute mentale sono poste da un tipo particolare di cure materne, che in caso positivo passano quasi inosservata. Si pongono come la continuazione delle “provvidenze fisiologiche caratterizzanti lo stato prenatale” e l’aspetto fondamentale è rappresentato dall’identificazione materna con l’infante[6], mediante la quale è capace di offrire al bambino “quasi esattamente ciò di cui egli ha bisogno” (Winnicott, 1965). 

-       Wilfred R. Bion sottolinea l’interattività e l’intersoggettività dei processi che portano all’evoluzione del pensiero. Per Bion inizialmente ci sono solo impressioni sensoriali, denominate elementi “beta”, le quali non posseggono alcuna qualità psichica. I pensieri sono costituiti da elementi “alfa”, i quali si formano dall’elaborazione degli elementi “beta” grazie all’intervento della funzione “alfa”. Questa funzione è inizialmente svolta dalla rêverie materna: la capacità di intuizione immaginativa della madre dello stato mentale del bambino (Bion, 1967). 

-       Anthony Bateman e Peter Fonagy muovono dalla teoria del pensiero di Bion per arrivare allo sviluppo del concetto di mentalizzazione, processo fondamentale nella capacità umana intersoggettiva di comprensione e condivisione degli stati mentali, acquisita dall’individuo grazie all’interiorizzazione da parte del bambino della risposta affettiva del genitore ai propri stati interni. La mentalizzazione riguarda l’attribuzione di significato agli stati mentali propri e altrui, sia implicitamente che esplicitamente. Per lo sviluppo di tale abilità è necessaria l’esperienza di un adulto che “abbia in mente” la mente del bambino e che rifletta accuratamente i sentimenti e le intenzioni che vi legge, dandogli significato attraverso espressioni di rispecchiamento facciale e vocale e mediante interazioni giocose. La madre accoglie lo stato mentale del bambino e glielo restituisce arricchito di significato. Mediante l’interiorizzazione della risposta affettiva del genitore, il bambino acquisisce la capacità di sviluppare personali rappresentazioni della propria esperienza interna, comprendendo se stesso come un agente intenzionale dotato di stati mentali (Bateman e Fonagy, 2006). 

È nella psicologia dello sviluppo, nello studio dei processi evolutivi del bambino promossi dalle interazioni con il caregiver che va ricercata l’ontogenesi della socializzazione e del senso comune; ed è mediante questo studio che ci si è spostati da una visione “adualista” di iniziale indifferenziazione simbiotica tra sé e non-sé alla concettualizzazioni di una precoce (sin dalla nascita) esperienza interagente del sé con il mondo attraverso la quale il Sé si forma tanto nella sua veste individuale che in quella sociale (Stanghellini, 2006). Questi primitivi processi di co-costruzione si trovano ad essere anche il terreno su cui si basa il nostro benessere mentale: ponendosi come presupposto per lo sviluppo dell’abilità dell’essere umano di leggere gli altri come propri simili con cui condividere un mondo di significati in cui poter interagire, essi rappresentano le fondamenta su cui poggia il nostro sentimento di realtà e la sua costanza (De Masi, 2006). Sentire il mondo come reale non è un atto cognitivo, ma un’esperienza immediata e pre-riflessiva: è un senso di appartenenza, è la sensazione di sentirsi parte del mondo degli esseri umani in modo intuitivo e vitale. Per questo motivo la formazione del proprio Sé individuale e sociale è così importante nel discorso sull’esperienza psicotica (schizofrenica soprattutto), che è primariamente una patologia dell’intersoggettività (Stanghellini, 2006). 

3.6. La dimensione intersoggettiva nelle neuroscienze: neuroni specchio e “simulazione incarnata”

 La conseguenza di una mancata sintonizzazione con gli stati interni del bambino è l’incapacità di comprensione intersoggettiva necessaria nel rapporto immediato con gli altri, e l’importanza di questi processi nello sviluppo umano è sottolineata anche da ricerche sui substrati neurali, in particolare dalla ricerca sul ruolo svolto dai neuroni specchio (Gabbard, 2007).

Questa particolare classe di neuroni fu scoperta, da un gruppo di neuroscienziati dell’Università di Parma negli ultimi decenni del secolo da poco concluso, nella corteccia premotoria dei macachi. Successivamente diversi studi sperimentali[7] hanno dimostrato la presenza di circuiti neurali di questo tipo anche nel cervello dell’essere umano, localizzati in particolare nelle regioni parieto-frontali. Il sistema dei neuroni specchio è un sistema che si attiva sia quando il soggetto esegue azioni, sia quando le stesse azioni vengono osservate negli altri (il movimento è inibito e non viene effettuato realmente, ma solo “simulato” mediante l’attivazione neurale). Per cui gli stessi neuroni hanno due funzioni: esecuzione e comprensione. La stessa proprietà “mirror” è stata osservata anche per quanto riguarda gli stati intenzionali, suggerendo una base biologica per la comprensione di emozioni[8] e sensazioni altrui.  Questo tipo di attivazione non fa riferimento ad una comprensione mediata cognitivamente o inferenzialmente, ma si tratta di un’attivazione e di una comprensione automatiche ed immediate (Gallese et al., 2006; Rizzolatti e Sinigaglia, 2006).

Come abbiamo visto dagli studi della psicologia dello sviluppo, l’essere umano è fin dalla nascita portato ad assimilare ed imitare azioni e stati dell’altro; questa classe di neuroni potrebbe costituire la base di questa abilità innata e rappresentare un meccanismo funzionale definito da Gallese “simulazione incarnata”. Questa dotazione innata, questa predisposizione però, come abbiamo visto, non è sufficiente allo sviluppo pieno della capacità di comprensione degli altri, ma necessita il complemento di un comportamento di adeguato rispecchiamento da parte di un caregiver in grado di interagire con il bambino. Quindi, più che di un nuovo fenomeno clinico, quella dei neuroni specchio riguarda piuttosto la scoperta di quali processi neurali possano sottendere fenomeni clinici già indagati, come quelli precedentemente discussi: sintonizzazione affettiva, mentalizzazione, ecc. (Gallese et al., 2006).

Uno degli aspetti più importanti di queste scoperte, è stata l’osservazione della capacità di alcuni neuroni specchio di “predire” le intenzioni che precedono gli atti osservati. Una specifica azione può avere origine in seguito ad una moltitudine di intenzioni anche molto diverse fra loro, e il risultato di diverse ricerche in questo senso hanno mostrato che i circuiti mirror sono implicati non solo nella comprensione dell’azione in sé e per sé, ma anche nella comprensione del “perché” di tale azione, nel riconoscimento di quale intenzione l’ha motivata. Tale attribuzione si verifica in maniera del tutto automatica e non in seguito a specifiche istruzioni in merito. A seconda dell’intenzione sottesa ad un identico atto, i neuroni scaricano secondo pattern di attivazione differenti e soprattutto lo fanno prima dell’osservazione della seconda parte dell’atto (quella che esplicita l’intenzione), suggerendo ai ricercatori l’ipotesi secondo la quale i circuiti mirror sarebbero in grado di discriminare fra stessi atti in base al programma di azione globale in cui si trovano collocati, cioè in base allo scopo. È possibile interpretare questo meccanismo di “simulazione incarnata” come il substrato neurale soggiacente la base delle capacità di mentalizzazione caratteristiche della specie umana (Gallese et al., 2006).

La “simulazione incarnata” descritta da Gallese e colleghi, o “embodied simulation” è il meccanismo innato attraverso il quale in seguito all’identificazione di uno stato affettivo in un altro raggiunta grazie alla percezione dell’espressione del suo viso, lo stesso stato affettivo è ricostruito e direttamente esperito in noi, producendo una condivisione del medesimo stato corporeo: gli stessi circuiti neurali vengono attivati, permettendoci la comprensione diretta, attraverso il nostro corpo, dell’emozione dell’altro. La riproduzione è immediata, non inferenziale: è una simulazione di tipo automatico e inconsapevole. Questo processo è presente già in bambini nati da poche ore, i quali risultano capaci di riprodurre i movimenti facciali degli adulti che li osservano in maniera automatica, non possedendo ancora bambini così piccoli l’abilità necessaria a simulare intenzionalmente mediante un’inferenza di tipo cognitivo. È questo un processo che nel corso dell’intera vita individuale continua e si implementa, rendendo a questo punto possibile ipotizzare che questo innato meccanismo intersoggetivo rappresenti la base dei concetti descritti dalla psicologia dello sviluppo e precedentemente affrontati: il rispecchiamento materno di Winnicott (1965) e la sintonizzazione affettiva di Stern (1985) (Gallese et al., 2006).

Tutti questi meccanismi ci permettono di portare il discorso sull’intersoggettività all’interno di quei paradigmi che negli ultimi decenni hanno totalmente ignorato la dimensione interpersonale e reificato il corpo a mero effettore di processi cognitivi, isolandolo in una realtà solipsistica, staccandolo dai suoi simili e dal mondo psichico. La scienza cognitiva ha completamente cancellato l’importanza dello scambio interpersonale nella costruzione della vita mentale soggettiva, ridotta ad un’impalcatura computazionale chiusa all’interno di un corpo macchina. In questo senso la scoperta dei circuiti mirror ha permesso di riportare l’individuo in una dimensione sociale, in cui la nostra capacità di comprendere l’altro ha origine in quello stesso corpo che il cognitivismo aveva consegnato ad un’esistenza monade. La sintonizzazione immediata con l’ambiente, con il mondo, con la vita è reso possibile dalla lettura e comprensione della manifestazione della nostra vita interiore. Tramite la risonanza dell’altro in noi, comprendiamo le sue azioni, i suoi stati mentali, le sue emozioni, e questo ci permette di sentirci come “simili”, come abitanti di uno stesso mondo in comune. Grazie alla scoperta dei neuroni specchio possiamo dire che ciò avviene non solo per la condivisione con gli altri esseri umani di tali azioni ed emozioni e delle modalità con cui vengono agite ed esperite, ma grazie alla condivisione anche di alcuni meccanismi nervosi che presiedono a quelle stesse azioni ed emozioni (Gallese, 2007).

Gallese chiama questo rapporto con il mondo intersoggettivo “consonanza intenzionale”: 

“Grazie alla simulazione incarnata ho la capacità di riconoscere in quello che vedo qualcosa con cui “risuono”, di cui mi approprio esperienzialmente, che posso fare mio. Il significato delle esperienze altrui è compreso non in virtù di una spiegazione, ma grazie ad una comprensione diretta, per così dire, dall’interno” (Gallese, 2007, p. 5). 

Tutto quello detto fino a questo punto è coerente con la visione fenomenologica dell’intersoggettività e dell’esperienza schizofenica come suo disturbo. L’intersoggettività è intercorporeità: la base della possibilità di condivisione sociale, di sintonizzazione con il mio mondo e con il mondo degli altri è la risonanza del mio corpo con il corpo dell’altro (Stanghellini, 2006).

Per la possibilità di una vita sociale “normale” è innanzitutto necessario che io possa sentire la mia individualità psichica e corporea come un tutt’uno, che possa percepire la mia individualità come un corpo e un Sé uniti nel loro agire nel mondo. Se non sento me stesso come un’unità intenzionale, anche gli altri allo stesso modo non potranno essere vissuti che come entità disincarnate. Il pieno “contatto vitale” di sintonizzazione intuitiva con l’ambiente, raggiunto grazie alla crescita di quell’abilità innata il cui substrato neurale potrebbe essere rappresentato dai neuroni specchio e per il pieno sviluppo della quale risulta fondamentale la presenza nell’infanzia di un adulto in grado di sintonizzarsi affettivamente con il bambino, completa la danza dell’intersoggettività. Da questa danza l’individuo schizofrenico è tagliato fuori, è fermo sul bordo della pista; non conosce i passi, ed osserva gli altri ballare chiedendosi da dove venga la musica che li guida, non sentendola provenire da sé e da quella pre-riflessiva connessione con la vita.


Bibliografia

[1] (Winnicott, 1965; Bion , 1967; Stern, 1985; Bateman e Fonagy, 2006)

[2] “A variety of self-disorders in schizophrenia have always been recognized, at least implicitly, as essential components of its clinical picture. An absent reference to a Self is frequently merely terminological, because the relevant phenomena are addressed in other terms and/or in another theoretical framework.” (Parnas e Sass, 2001, p. 102).

[3] In quest’accezione, cioè nella connotazione distintiva della coscienza, il termine intenzionalità non assume il significato di avere intenzioni o propositi, ma va invece letto alla luce del verbo latino intendere: la coscienza è sempre come una freccia incoccata in un arco con la corda tesa, la coscienza è sempre diretta a qualcosa (Stanghellini, 2009a). 

[4] (Parnas et al., 2002; Sass e Parnas, 2003; Nelson B. et al., 2008; Stanghellini, 2009a; Stanghellini, 2009b; Henriksen M.G. et al., 2010)

[5]  Stern, per giungere a tali conclusioni, si basa su diversi studi ed esperimenti, da lui discussi nel suo testo “Il mondo interpersonale del bambino”, in particolare nelle pagine da 63 a 68.

[6] Winnicott utilizza questo termine come riferimento al bambino molto piccolo, nel periodo pre-verbale, in cui egli dipende da un tipo di cure materne che deve fondarsi su di una comprensione dei bisogni del bambino fondata sulla risonanza emozionale piuttosto che sull’espressione linguistica (Winnicott, 1965).

[7] Vedi: Rizzolatti, Fadiga, Gallese e Fogassi (1996); Rizzolatti, Fogassi e Gallese (2001).

[8] Studiando sperimentalmente emozioni primarie si sono ottenute conferme per quanto riguarda l’attivazione, in seguito all’osservazione negli altri di disgusto o dolore, dello stesso substrato neurale legato alla percezione in prima persona della medesima emozione (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006).



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