1. SCHIZOFRENIA COME PATOLOGIA DELL’INTERSOGGETIVITÀ

1.1. Sintomi o esperienze?

La schizofrenia non si può descrivere come un disturbo inquadrabile univocamente in una singola definizione nosografica, ma piuttosto come diverse forme psichiche soggiacenti a configurazioni sintomatologiche diverse e mutevoli ma fra loro connesse; questo aspetto clinico è ben colto dalla nozione bleuleriana di gruppo delle schizofrenie (Borgna, 1995; Bove, 2007).

Nonostante l’interesse e la mole di ricerche, da punti di vista teorici differenti, che la condizione schizofrenica ha da sempre suscitato, la sua fondazione genetica non è ancora chiara e continua a suscitare dibattiti e nuove ipotesi di ricerca (Borgna, 1990; Parnas et al, 2002; Bove, 2007). In ogni caso un aspetto che sembra poter essere dato per certo è che il disturbo schizofrenico, oltre a rappresentare il prodotto dell’incontro di più variabili (biologiche, psicologiche e sociali), ognuna delle quali assume un peso ed un ruolo differenti nelle diverse forme e nei diversi vissuti, colpisce soggetti che presentano una configurazione psicologica particolare (Bove, 2007; Gabbard, 2007).

L’essere umano che il clinico viene a trovarsi di fronte nel rapporto con un paziente schizofrenico, perciò, non è una soggettività statica, ma piuttosto la reazione dinamica individuale in risposta allo scontro con il disturbo: quelli che in psichiatria vengono chiamati sintomi e segni sono gli aspetti che vengono estratti, in quanto in grado di attirare maggiormente l’attenzione, dai fenomeni psicotici e rappresentano il risultato della modulazione personale dell’individuo in risposta all’impatto provocato dal disturbo primario. Ciò che avviene nella “metamorfosi psicotica”, è non solo il manifestarsi di “una” (fra le tante possibili) sintomatologia clinica, ma il modificarsi della specifica modalità di esistenza di ogni paziente, il suo essere-nel-mondo (Borgna, 1995; Ballerini, 2002; Gabbard, 2007).

La moderna nosografia categoriale non coglie queste sfumature, difficilmente inquadrabili in un’ottica descrittiva principalmente volta alla ricerca di sintomi e “segni” presumibilmente rilevanti per la diagnosi, con la conseguenza di una visione ristretta che lascia scoperta una grossa parte di quello che è il vissuto delle persone schizofreniche (Stanghellini G. e Ballerini M., 2007a).

L’approccio alla malattia mentale ha nel tempo seguito percorsi ed evoluzioni differenti, ma la svolta fondamentale è stata quella dalla psichiatria descrittiva dei fenomeni, dei sintomi e dei comportamenti, alla psicopatologia intesa come studio delle esperienze vissute dal paziente come essere umano. La psicopatologia nasce con Jaspers, con la pubblicazione nel 1913 della “Psicopatologia generale” (Allgemeine Psychopathologie) e con l’introduzione fondamentale delle categorie della soggettività e dell’intersoggettività nell’approccio al paziente. Il paziente non è più solo osservato, ma viene ascoltato: si passa dall’osservazione medica, alla dimensione del rapporto intersoggettivo (Cappellari e Gozzetti, 1999; Ballerini, 2002).

Nella storia della ricerca nel campo della psicosi, eminenti psicopatologi si sono espressi a favore di una visione che non riducesse la caratterizzazione della patologia schizofrenica a singoli sintomi o alla loro combinazione, ma piuttosto che ne rintracciasse la specifica “Gestalt”, i lineamenti caratterizzanti rispetto agli altri disturbi mentali: la forma caratteristica ed unificante sottostante alle diverse espressioni del disturbo piuttosto che la sua dissezione in sintomi isolati (Henriksen M.G. et al., 2010).

In particolare con la fenomenologia l’attenzione si è rivolta ad una lettura delle diverse patologie come soggettive modalità di esperienza, come personale modalità di “essere nel mondo” e tale modo di vedere la malattia mentale è dovuto allo sguardo dello psicopatologo, guidato dalla consapevolezza che il paziente non si limita ad esprimere una sintomatologia comportamentale, ma essenzialmente e primariamente “vive delle esperienze”: l’interesse è rivolto ai percorsi seguiti dal soggetto per arrivare al disturbo, piuttosto che all’enumerazione delle manifestazioni osservabili (sintomi) (Scharfetter, 1992; Ferro, 2010). 

1.2. Il metodo della Psicopatologia Fenomenologica

Lo “sguardo” fenomenologico di cui stiamo parlando è intimamente legato all’essenza stessa della psicopatologia fenomenologica, la quale è descritta da Callieri con queste parole: 

“Per Psicopatologia Fenomenologica si intende un’insieme di impostazioni metodologiche che mirano a cogliere e descrivere gli eventi psicopatologici nel loro darsi immediato, nell’incessante divenire dei vissuti.

Tutte le psicopatologie fenomenologiche presuppongono una visione del mondo che sospende sia l’atteggiamento ingenuo della psicologia del senso comune sia la questione psicofisica (considerata metafisica) quindi anche quella della causalità degli accadimenti psichici abnormi. Nel loro insieme questi indirizzi valorizzano il ruolo della coscienza come facoltà in grado di percepire e comunicare gli accadimenti psichici soggettivi, cioè come luogo (contemporaneamente virtuale e incarnato) della costituzione percettiva, progettuale e relazionale dell’identità soggettiva dell’individuo e del suo rapporto col mondo (mondo interumano)” (Callieri, 2003, p. 6).

La Fenomenologia si articola particolarmente come metodo scevro di ogni riduzionismo (sia esso biologico o psicologico)[1]; metodo che innanzitutto “comporta la costante apertura all’orizzonte di senso proprio ad ogni accadimento psichico (normale o abnorme)” (Callieri, 2003, p. 6).

Per cui l’indagine fenomenologica è soprattutto un metodo: quale? L’osservazione dei fenomeni in un’atmosfera di totale sospensione dei giudizi: è la pratica dell’“epochè”, la riduzione trascendentale, la messa tra parentesi del mondo nella sua pre-dotazione di senso comune. Il risultato di questo modo di porsi dovrebbe essere una comprensione altra rispetto a quella mediante cui si giungerebbe attraverso influenzamenti pre-giudizievoli come possono essere quelli dei modelli teorici che guidano il clinico (per esempio le categorie nosografiche, ma anche riduzionismi psicologici e/o biologici); si tratta quindi di una comprensione intuitiva, di tipo immediato, indirizzata all’accoglienza del modo di essere dell’altro nella sua essenza e definita “eidetica” (Stanghellini, 2006).

Grazie ad una visione di questo tipo, il paziente schizofrenico viene non solo osservato nelle sue manifestazioni puramente comportamentali, ma viene “compreso” innanzitutto come essere umano strutturalmente simile agli altri abitanti del mondo (Minkowski, 1937, citato da Cappellari e Gozzetti, 1999); ed è questo modo di “guardare” l’esperienza psicotica (in particolare schizofrenica), piuttosto che limitarsi ad “osservarla”, che fa emergere dalla cornice fenomenologica una concettualizzazione della schizofrenia come la manifestazione di un nucleo sottostante unitario, di un “disturbo generatore” (Minkowski, 1953), di quello che Bleuler chiamò, per primo, autismo (Bleuler, 1911) e del quale la perplessità (o perdita dell’evidenza naturale) è una delle maggiori espressioni (Henriksen et al., 2010).

In quest’ottica la schizofrenia può essere concettualizzabile come l’espressione di un sottile (ma pervasivo e persistente) disturbo dell’esperienza soggettiva, per la cui definizione di natura e confini è richiesta l’adozione di un approccio fenomenologico (Sass, 1992; Parnas e Zahavi, 2002; Sass e Parnas, 2003). Il metodo dell’indagine fenomenologica utilizza quelli che sono definiti gli existentialia (tempo, spazio e corpo vissuti, intersoggettività), i quali caratterizzano il modo di essere nel mondo di ciascun essere umano, come base per il tentativo di comprendere la soggettività dell’Altro-da-noi fornendo una ricca cornice strutturale nella quale inquadrare l’organizzazione dell’esperienza soggettiva[2] (nella salute mentale) e  la sua frammentazione (nella sofferenza mentale) (Stanghellini, 2006; Uhlhaas e Mishara, 2007).  

1.3. Compromissione sociale nella schizofrenia: una visione d’insieme

In un approccio alla psichiatria fenomenologicamente orientato, la dimensione soggettiva (l’io) non può essere asportata dalla dimensione intersoggettiva (il tu). I vissuti (normali e psicotici) si muovono nell’incontro di una comunicazione duale fra soggettività e alterità, le quali oltre a confrontarsi si alimentano l’un l’altra: 

“l’io e il tu si costituiscono nel noi (personale e sociale) che li riassume e li fonda nella loro originarietà e nella loro complementarietà” (Borgna, 1990, p. 87).  

Questa dimensione dialettica si espande poi a comprendere il fenomeno più generale della comunicazione dell’io con il mondo sociale e l’esperienza schizofrenica ha un senso decifrabile esclusivamente se colta come “scacco dell’intersoggettività”, afferrabile in una distorsione nella comunicazione con il mondo (Borgna, 1990).

La patologia schizofrenica, dunque, come patologia dell’intersoggettività, per il chiarimento della quale il punto di partenza epistemologico è il considerare (e analizzare) la soggettività come un fenomeno sociale (Borgna, 1990; Stanghellini, 2000a; Stanghellini e Ballerini, 2002; Stanghellini, 2006). La psicopatologia ha da tempo riconosciuto la matrice intersoggettiva del disturbo, ma la strada percorsa nello studio della schizofrenia è stata maggiormente indirizzata verso l’analisi dei cambiamenti nella coscienza dell’individuo “monadizzato”, isolato dal contesto del mondo in cui si trova invece immerso e definito sociale anche in relazione alla condivisione dei significati del mondo stesso da parte delle persone che lo popolano (Stanghellini e Ballerini, 2002; Rossi Monti, 2006).

L’essere umano (e lo schizofrenico in quanto tale) abita questo mondo, ogni giorno, e non è “asportabile” dalla matrice intersoggettiva dell’esistenza alla cui costituzione contribuisce attivamente. Perciò, in accordo con la fenomenologia, è un atteggiamento sbagliato quello di separare i due livelli nella costruzione e nell’attribuzione dei significati socialmente condivisi: è sbagliato tanto lo “scartare” (come per esempio fanno comportamentismo e funzionalismo) il passaggio dell’analisi del contributo soggettivo nella costituzione dei significati, quanto il tentativo di separare, nell’analisi del processo di attribuzione di quegli stessi significati, il pensiero individuale dai fenomeni sociali (come per esempio in una prospettiva fenomenologica (recentemente abbandonata) principalmente solipsistica in cui l’intersoggettività era considerata una categoria raggiunta a partire dalla solus ipse[3]) (Stanghellini e Ballerini, 2002).

Il problema dell’intersoggettività nella sindrome schizofrenica viene incasellato dal “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” (APA, 2000) in quella che è definita una “disfunzione sociale e occupazionale” e che costituisce uno dei due criteri necessari per effettuare diagnosi di schizofrenia, il criterio B, ponendosi di fatto come una componente essenziale del disturbo (Stanghellini, 2006). Le critiche e i dubbi che il criterio B solleva sono molteplici e possono essere così riassunte (Stanghellini, 2006): 

-       Non viene specificato cosa si intenda per “disfunzione sociale e occupazionale”

-       Qual è il rapporto esistente tra i sintomi clinici (A) e la disfunzione esplicitata da B? Questo rapporto è di tipo “causale o motivazionale”? [4] A queste domande il Manuale non risponde, e ciò è strettamente legato al primo punto: non è possibile chiarire quale sia “la relazione patogenetica” tra i due criteri fino a quando non si saprà esattamente a cosa ci si riferisce con “disfunzione sociale e lavorativa”. Ma la legittimità di tali dubbi è rintracciabile nel semplice dato di fatto che un qualche tipo di deterioramento nella funzionalità sociale e lavorativa è conseguente ai sintomi di quasi tutti i disturbi mentali: è perciò lecito chiedersi quale sia il motivo per cui tale disfunzione nella schizofrenia connoti in modo talmente specifico e marcato il disturbo, da costituirne uno dei due pilastri diagnostici

-       Un’altra caratteristica che ben si presta ad essere oggetto di critiche è il riferirsi del criterio B a giudizi di valore (peggiorativi) rispetto alla funzionalità sociale del soggetto piuttosto che ad una sua semplice diversità.

Il funzionamento sociale nella schizofrenia è compromesso, in genere marcatamente, a livelli diversi e questo è “ampiamente documentato” (Stanghellini e Ballerini, 2002, p. 102); però nel quadro delle manifestazioni che ricadono sotto la definizione di disturbo schizofrenico, tale compromissione non sembra essere conseguenza diretta dei sintomi clinici del criterio A, come invece accade chiaramente per altri disturbi di tipo psichiatrico. Ci si chiede quindi dove cercare il carattere patognomonico della schizofrenia, se questo non sottende i sintomi clinici (criterio A); è possibile allora legittimamente domandarsi se esso non giaccia forse nella indefinita “disfunzione socio-lavorativa”: è la specificità della vita sociale schizofrenica, la forma peculiare della sua diversità, che dona “schizofrenicità” ai quadri psicotici (e ai sintomi) (APA, 2000; Stanghellini G., 2000b; Stanghellini G. e Ballerini M., 2002). 

1.4. Socialità: abilità cognitiva o partecipazione intuitiva?

A questo punto la domanda a cui appare determinante rispondere è: cosa si intende per disfunzione sociale e quale competenza, al cuore di essa, si trova ad essere disturbata? Diversi approcci rispondono in maniera (più o meno) differente, focalizzando aspetti più o meno riduzionistici (Stanghellini, 2006; Stanghellini e Ballerini, 2007b):

-      Nel modello del comportamentismo-funzionalismo la competenza sociale è ascrivibile al concetto di “social skills” o “abilità sociali”: esse si riferiscono all’essere o meno in grado di scegliere le strategie di comportamento più adeguate per rispondere ai propri bisogni ed obiettivi

-      Nell’approccio dominante nella ricerca sulla schizofrenia, il modello del cognitivismo, la competenza sociale è delineata come “social cognition” o “cognitività sociale” e si riferisce all’abilità di “comprendere, predire e rispondere correttamente ai pensieri, sentimenti e comportamenti altrui”

-     Nel modello dell’interazionismo simbolico la competenza sociale risiede nella nozione di “social knowledge” o “conoscenza sociale”. In questo approccio il funzionamento sociale poggia sia sulla capacità di interagire con gli altri attraverso la condivisione dei simboli che rendono possibile la comunicazione, sia sulla capacità di adottare il punto di vista degli altri.

-     La fenomenologia pone maggiormente la propria attenzione sugli aspetti non-cognitivi, non limitandosi a ridurre l’essenza della socialità nell’individuo meramente al suo rapporto adattivo con l’ambiente o al suo conformarsi a modelli comportamentali, come sembrano fare i modelli sopra elencati (ad esclusione dell’approccio dell’interazionismo simbolico). La fenomenologia pone l’accento sull’aspetto della reciprocità e della sintonizzazione, legando il discorso della socialità a quello dell’intersoggettività: i disturbi del sé sociale e i disturbi dell’intersoggettività vengono tematizzati come anomalie della sintonizzazione con il senso comune

Da un punto di vista fenomenologico, la socialità (e i suoi disturbi) viene a caratterizzarsi come un aspetto armonico e corale, piuttosto che come la frammentazione in abilità cognitive e di adattamento dell’individuo al proprio ambiente. Ciò che particolarmente descrive e caratterizza l’esperienza sociale schizofrenica è uno specifico tipo di disorganizzazione delle strutture su cui la vita sociale si fonda, e coinvolge tanto aspetti cosiddetti “negativi” quanto aspetti “positivi”: l’aspetto deficitario riscontrabile nei comportamenti inappropriati alle circostanze, nella perdita di contatto affettivo e nel distacco dal mondo, ascrivibile alla disturbata sintonizzazione pre-categoriale, si accompagna all’aspetto “aumentato” attestabile per esempio alla tendenza alla ruminazione non orientata alla realtà e all’eccentricità rispetto al senso comune che si manifesta con un’aderenza rigida a idee idiosincratiche e con l’emergere di una gerarchia di valori caratteristici. È a questa disorganizzazione di base che Stanghellini e Ballerini si riferiscono con il termine “dis-socialità”, intendendo con esso un disturbo qualitativo della partecipazione intuitiva e spontanea alla vita sociale (Stanghellini e Ballerini, 2002; Stanghellini e Ballerini, 2007b).

Appurato che la compromissione del vissuto sociale è inquadrabile come un’espressione nucleare (e non semplicemente sintomatica) e caratteristica del disturbo schizofrenico, sono diversi gli approcci che in letteratura sottolineano come tale disfunzione, precedendo la comparsa dei segni clinici, sia da considerare non una loro conseguenza ma una loro premessa, caratterizzandosi come un importante aspetto della vulnerabilità schizofrenica (Stanghellini, 2000b; Stanghellini e Ballerini, 2002). Da questo punto di vista, il modo di vivere dello schizofrenico è il riflesso del disturbo sociale, concettualizzabile come un tratto (quantitativamente variabile) presente antecedentemente la comparsa sintomatologica: è il concetto di autismo, il quale esprime, nella cornice della socialità, la compromissione tanto della partecipazione quanto della competenza (dis-socialità) (Parnas e Bovet, 1991; Stanghellini e Ballerini, 2002).

PROSEGUI LA LETTURA 2. AUTISMO E CRISI DEL SENSO COMUNE COME DISTURBO DELL’INTERSOGGETTIVITÀ

Bibliografia


[1] Con questo non si vuole affermare “che la psicopatologia e la psichiatria clinica non si fondino, e ampiamente, sulla base delle neuroscienze, cioè non debbano avvalersi di impostazioni, approcci,suggerimenti e metodi neurobiologici, neurofisiologici e neuropsicologici”; va riconosciuta e ricordata l’importanza sempre maggiore “degli studi sui neurotrasmettitori, sulle endorfine, gli oppioidi, la psicoendocrinologia, i rapporti tra neurofarmacologia e modelli comportamentali.” Quello che si vuole sottolineare è l’importanza di evitare la caduta “nel riduttivismo monodimensionale” (Callieri, 1998, p. 1)

[2] L’indagine della dimensione soggettiva è importante non solo per l’analisi di quella che si è definito il substrato nucleare del disturbo, ma anche perché ricreare la dimensione esperienziale è il primo passo cruciale nell’approccio ad una condizione psicopatologica, da qualsiasi cornice teorica essa venga osservata. “Even if experiential phenomena were purely epiphenomena of other processes, such as neurobiological processes, and do not play any causal role in themselves, any causal explanation would have to account for these experiential phenomena. In order for a reductionism (to neurobiological processes, to genetic patterns, etc.) to be coherent, the entity (subjective experience) to be reduced must be properly described and understood. Finally, phenomenological analysis is in no way incompatible with other types of analysis that fit more neatly into the operational paradigm, such as neurocognitive and neurobiological approaches. It is simply another level of analysis, informed by different principles, and not seeking to displace these other forms of analysis” (Nelson et al., 2008, p. 383). 

[3]  “this solipsistic perspective […] has defended the inescapable subjective peculiarity of sociality. […] Recently, has been abandoned. The phenomenon of intersubjectivity is considered as a primordial event […] As a consequence, social phenomenology abandons the naïve belief that reality is ontology. We experience objects and events as ‘real’ because we share their meanings with the others” (Stanghellini e Ballerini, 2002, p. 104).

[4] La relazione tra sintomi del criterio A e “disfunzione sociale” del criterio B può essere esplicitabile in tre ipotesi:

“1. Disfunzione sociale come conseguenza dei sintomi schizofrenici 2. Disfunzione sociale come indicatore diagnostico della schizofrenia […] 3. Disfunzione sociale come fattore di vulnerabilità” (Stanghellini , 2006, pp. 91-93).




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