Lo psicologo tra amicizia, intimità e distanza

Nell’articolo precedente ci eravamo soffermati sulla presenza di alcune peculiarità relazionali nel rapporto psicologo-paziente.

Avevamo concluso ricordando, infatti, che anche se lo psicologo è partecipe e prova un sincero affetto per il paziente, comunque non può essere un amico (almeno non nel senso d'uso comune del termine) se vuole essere di aiuto a chi gli si è rivolto, rendendo di fatto la relazione terapeutica un rapporto estremamente particolare. 

Vediamo in pochi punti alcune delle particolarità della relazione con lo psicologo:

#1      Come primo punto, osserviamo come sia un rapporto in cui ad una grande intimità e coinvolgimento emotivo, si accompagna la necessità per il clinico di mantenere anche una certa “distanza”. Distanza però è un termine che rimanda istintivamente a freddezza, disinvestimento, distacco, tutto il contrario di quel clima di trasporto e paticità di cui abbiamo parlato. 

Come possono stare insieme questi due aspetti? 

Sicuramente distanza qui non significa affatto né neutralità (epistemologicamente implausibile e terapeuticamente sterile, in un sapere e cura che si articolano come co-presenza[1]) né freddezza. Se la definizione di distanza è “[dal lat. distantia, der. di distare «distare»] la lunghezza del tratto di linea retta … che congiunge due punti … o, più genericamente, la lunghezza del percorso fra due luoghi, due oggetti, due persone[2], allora il significato del termine rimanda allo spazio definito dalla relazione fra partecipanti a quello stesso spazio. Non è dunque la distanza di per sé a rappresentare freddezza e distacco, ma come viene abitata da chi la definisce ponendosi ai due capi. 

Ogni relazione si crea e si mantiene nella distanza, senza distanza non sarebbe possibile alcun movimento o percorso, sarebbe adesione e irrigidimento. In una relazione amicale questa distanza e la sua abitabilità rimangono generalmente sullo sfondo mentre nella relazione terapeutica emergono in primo piano. Il modo di percorrerla e viverla è uno dei focus del lavoro terapeutico. Inoltre nella relazione amicale, le situazioni, i movimenti emotivi, i racconti spesso coinvolgono entrambi i partecipanti e possono avere conseguenze ed influenze dirette su vita e quotidianità di ognuno dei due; non così nella relazione terapeutica dove la distanza assume anche il comune significato di lontananza e distacco, ma non dall’altro come persona e come umanità in dialogo, piuttosto dal livello mondano della relazione e dalle sue implicazioni. 

Lo psicologo può e deve emozionarsi col paziente, mostrare anche la propria vulnerabilità ed umanità, avvicinarsi, toccare ed essere toccato dalle vicende dell’altro, disposto anche a farsi colonizzare dalle sue angosce, amarlo anche, ma sempre mantenendo la propria funzione di pensiero, di contenimento, di osservazione delle dinamiche in atto, al fine di poter aiutare il paziente. Per cui distanza intesa come messa a disposizione di uno spazio e di un tempo per il lavoro terapeutico; distanza come una disposizione emotiva di apertura all’ascolto in cui la tensione tra avvicinamento e ritiro lasci spazio all’emersione del senso dell’esperienza del paziente e alla possibilità della coppia terapeutica di coglierlo. Possibilità che verrebbe difficilmente colta laddove il clinico si lasciasse sommergere e trasportare perdendo lucidità o in cui si assestasse su un’adesione estremizzata e acritica[3] ad uno dei due poli dell’oscillazione costante a cui è chiamato, fra “un aver-qualcosa-di-fronte e un essere-con-qualcuno”[4], con la raccomandazione però di mai “sorpassare il limite di quella distanza critica per cui un uomo non risulta più tale, ma solo qualcosa” .[5]

#2      Nella relazione terapeutica c’è poi una sproporzione evidente rispetto a quella con un amico: in un rapporto di amicizia, non ci si focalizza unicamente sulla conoscenza del mondo di uno solo dei due. Se così fosse, ci sarebbe un problema. Nella coppia terapeutica, invece, la direzione dello sguardo è unicamente sul mondo-della-vita del paziente. 

Lo psicologo è nella relazione, con tutti i propri vissuti e la propria persona ma sempre al servizio della conoscenza e del prendersi cura della sofferenza e/o impasse di chi gli si è rivolto. L’assoluta simmetria umana dei due partecipanti alla relazione terapeutica (due esseri umani che seppur interpretandole e appropriandosene in modo personale condividono le medesime strutture costitutive dell’esistenza), si accompagna cioè ad una asimmetria nei ruoli che si traduce nel mantenimento del focus d’osservazione: il paziente e i suoi bisogni; il paziente e la sua storia; il paziente e la sua possibilità di riacquisire libertà e responsabilità nei confronti del proprio smarrimento.  

#3     Altra caratteristica distintiva è la possibilità per il paziente di parlare, con maggiore libertà rispetto ad altre relazioni, di ogni aspetto della propria esperienza mano a mano che acquisisce fiducia nel proprio psicologo e nel rapporto terapeutico. 

Il paziente impara infatti che il clinico oltre ad essere tenuto al segreto professionale, è lì per lui e per aiutarlo, non per giudicarlo. Ciò configura lo spazio terapeutico come uno spazio protetto e dedicato all’ascolto dell’esperienza e dei vissuti della persona al di là di qualsiasi attitudine moralizzante. Che non vuol dire che lo psicologo non abbia le proprie idee, i propri valori, le proprie convinzioni, sarebbe ipocrita anche solo pensarlo; vuol dire piuttosto che tali personali inclinazioni vengono sospese, tenute fuori dal rapporto. Potrebbero anche verificarsi situazioni in cui il clinico si trovi a ritenere utile condividere proprie opinioni in contrasto con quelle del paziente, ma  sarà sempre in funzione di un pensiero al servizio della relazione e della dinamicizzazione delle possibilità di presa di posizione, mai un voler indirizzare o giudicare o influenzare comportamenti, vissuti, convinzioni personali della persona che ha davanti. 

Il paziente deve poter sentire lo spazio e il tempo dell’incontro terapeutico come configuranti un luogo sicuro, in cui sentirsi libero di esplorare qualsiasi proprio pensiero, certo che verrà accolto. Un tale grado di intimità è qualcosa che ovviamente si costruisce col tempo, mano a mano che il paziente scopre che la relazione sopravvive (e, anzi, si fortifica) anche agli inevitabili urti e a ciò che sente come più disturbante e difficile da verbalizzare e che sperimenta la capacità della coppia di proteggere ed esplorare anche le zone che generalmente rimangono più in ombra, per vergogna, paura o altro.  

#5     Un’altra caratteristica peculiare del rapporto, è che lo psicologo non è chiamato a dare consigli, come generalmente avviene tra amici. 

Lo psicologo non è chiamato a dire cosa dovrebbe o non dovrebbe fare il suo interlocutore in una data situazione o come si comporterebbe lui nei suoi panni, così come fanno generalmente le persone con le quali si parla delle proprie esperienze e vicissitudini. Lo psicologo è chiamato, piuttosto, ad aiutare il paziente a trovare la propria soluzione, il proprio specifico modo di affrontare le proprie sfide quotidiane, a costituirsi come protagonista effettivo del proprio progetto di mondo. Se capita che lo psicologo si ritrovi a dare suggerimenti, questi si configurano come proposte da analizzare insieme e non come dettami o consigli veri e propri. 

Lo psicologo può essere visto come una guida, anche se abbastanza singolare. Una guida per un percorso che non gli è noto del tutto, per un percorso che si andrà costruendo insieme. È un compagno di cammino, un conoscitore di territori più che del luogo specifico in cui ci si trova, conoscitore di dinamiche relazionali e coordinate esistenziali che strutturano la vita di ognuno più che del mondo-della-vita specifico del paziente con cui si accinge ad affrontare un pezzo di strada. Lo psicologo non ha la mappa dello specifico mondo che il paziente rappresenta e porta ma conosce il metodo per tratteggiarla insieme a lui. Il clinico si pone come “esperto” di paesaggi, di perlustrazione di territori inesplorati, conoscitore di terreni accidentati e di come muoversi per trovare corsi d’acqua o riparo per la notte, di come tentare di sopravvivere durante un temporale o in tempo di carestia. La mappatura del luogo e dove trovare le specifiche risorse è qualcosa che sarà possibile solo insieme a chi quel mondo lo struttura e lo vive ogni giorno sin dalla nascita. 

Lo psicologo preserva la propria funzione terapeutica

Il clinico, riconoscendo l’importanza dello  spazio relazionale e della sua co-costruzione, lo preserva prima di tutto in sé stesso, se ne prende cura, lo protegge continuamente e continuamente opera per mantenerlo. È per questo che lo psicologo non può coinvolgersi in una relazione amicale e si differenzia da essa anche attraverso il mantenimento dei limiti del proprio ruolo professionale: lo psicologo non prende in carico persone la cui conoscenza pregressa potrebbe fornire elementi di disturbo della distanza così come l'abbiamo intesa; lo psicologo si fa pagare per il suo operato; lo psicologo dà una durata definita al colloquio. Lo psicologo porta sé stesso nella relazione e da essa viene modificato necessariamente ma non può perdervisi; sta con il proprio paziente, insieme a lui sente e partecipa in modo patico, soffre e ama, coinvolgendosi, ma deve poter mantenere la propria funzione senza perdere la lucidità necessaria a fare ciò per cui è stato interpellato, cioè rendere meno incandescente lo smarrimento del paziente.

Dunque lo psicologo ha a cuore le sorti dei propri pazienti e prova per e con loro sentimenti anche forti, condividendo momenti di grande intensità ed intimità, ma non può essere un amico nel senso comune del termine.

Il clinico deve avere chiaro il suo ruolo, che è quello di aiutare il paziente a vedere il proprio mondo e a trovarvi la propria strada, aiutarlo a riconoscere le zone in cui costruire, quelle in cui sostare, dove rinforzare le fondamenta, dove abbeverarsi e dove costruire pozzi, dove coltivare il terreno e dove stendersi nell’erba a prendere fiato in base alle sue personali modalità di sentire ed esistere. Non è la soluzione più semplice né, spesso, la meno dolorosa. Ritengo però sia l’unica possibile, laddove non esistono risposte pre-costituite o passepartout, per andare nella direzione di quello che, a mio modo di vedere, è il primo e più importante obiettivo della psicoterapia: donare nuova speranza, intesa come riappropriazione di movimento e possibilità di costruire e ri-costruire continuamente l’abitabilità del proprio mondo, a chi per un motivo o per un altro l’abbia momentaneamente smarrita.


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EP - Psicologo Psicoterapeuta Pesaro, 10 Novembre 2020

 

Riferimenti bibliografici


[1] G. Di Petta (a cura di, 2009). Fenomenologia: Psicopatologia e Psicoterapia. Edizioni Universitarie Romane, Roma.

[2] https://www.treccani.it/vocabolario/distanza/

[3] A. Ballerini (2012). Ricerca fenomenologica e ricerca empirica: quale rapporto nella psicopatologia? http://www.psychiatryonline.it/node/2102

[4] Cargnello D. (prima ed. 1972). Alterità e alienità. Giovanni Fioriti Editore, Roma (2010)

[5] Ibidem.