Di chiacchiere e di Incontri

“Non potrebbe del resto dire cos’è l’incontro chi non si fosse mai incontrato.”

A. Masullo

Capita spesso di sentir dire “ma cosa vai a fare dallo psicologo, pagare per fare quattro chiacchiere!” e altrettanto spesso questo pensiero è accompagnato da un altro: “tanto non serve a niente. È come parlare con un amico. Opinioni in cui si mischiano considerazioni e livelli diversi, in cui alla squalifica della “chiacchierata a pagamento” sembra in qualche modo accompagnarsi comunque una qualche valorizzazione della parola e del dialogo, seppur generalmente nell’unica direzione di ottenere una via di sfogo e probabili consigli.

Siamo davvero certi che quello della quotidianità sia lo stesso supporto e lo stesso discorso su di sé a cui si accede nella stanza dello psicologo? 

Forse è utile provare a fare un po’ di chiarezza, fermo restando che essendo il linguaggio e la relazione sia gli strumenti di cura della nostra professione, sia gli ingredienti dell’esperienza umana, i distinguo sono sfumati, come in ogni questione complessa.

Ma se davvero è come ho appena affermato, e cioè che la cura offerta dallo psicologo è massimamente basata su parole e presenza umana, se sono queste le componenti terapeutiche, allora perché non potrebbe effettivamente bastare un buon amico o anche solo uscire e stare con altre persone, fare sport di squadra, frequentare luoghi di aggregazione?

E in effetti è così, ci sono persone e situazioni per cui è sufficiente.

Parlare e sentirsi ascoltato da qualcuno che ci conosce e sa come prenderci, come tirarci su, sentirsi dare dei consigli, buoni o meno che siano o ricevere distrazione e vie di fuga da situazioni che sembrano soffocarci, scaricare la tensione con lo sport in compagnia e fare il pieno di endorfine, mantenersi attivi e tutte le cose che sappiamo fare bene al nostro essere animali sociali è qualcosa di estremamente prezioso. E ce ne rendiamo conto sempre di più in questo periodo storico eccezionale in cui per prenderci cura della salute fisica nostra e della comunità in cui viviamo siamo costretti ad uno sforzo “disincarnante” che ci strappa via da affetti e condivisione di spazi e umori e a risentirne sono benessere mentale e qualità della vita.

Quindi sì, sfogarsi con un amico, condividere un’esperienza con il compagno di spogliatoio o farsi una chiacchierata leggera al bar, chiedere un consiglio ai nostri cari, sono tutte cose che aiutano e contribuiscono a trovare conforto ma a volte non bastano e ciò che può aiutarci a stare meglio sono un tipo di incontro e di relazione diversi, basati largamente sulla parola ma non solo, indipendentemente dal numero di amici o di relazioni sociali che si hanno e dalla propria maggiore o minore tendenza all’introversione e riservatezza.

Di cosa stiamo parlando?

Innanzitutto, sia che si tratti di avere a che fare con uno psicologo che con un amico o con un conoscente, incontro e relazione sono concettualmente differenti: la relazione implica una consuetudine (affettiva, professionale o intellettuale che sia) e si colloca sulla freccia del tempo, ha cioè una sua durata più o meno breve (parla la lingua di chronos); l’incontro ha a che fare piuttosto con una frattura del tempo, con una sua contrazione sulla pienezza di un essere pienamente situato, non è definibile in termini di durata quanto di densità (parla la lingua di kairòs).[1]

Ora, la possibilità di incontrarsi, nella piena accezione del termine di dare vita ad una noità condivisa e co-creata che si coagula in un nucleo atemporale, fa parte delle possibilità dell’essere umano, è un a priori, una struttura trascendentale di cui ognuno ha l’opportunità di coglierne il sapore nella propria vita personale, con più o meno facilità e propensione. Questa possibilità immanente è il principale motore della cura di cui si fa portatore lo psicologo opportunamente formato. La base per il lavoro terapeutico è la creazione di una buona relazione (quella che viene definita “alleanza terapeutica” e che è ormai riconosciuta essere il principale fattore di cambiamento in psicoterapia al di là degli specifici orientamenti) all’interno della quale porre le condizioni e la dovuta attenzione alla possibilità per clinico e paziente di incontrarsi, di sentire l’essenza della propria identità nell’ aïda[2], in quel “fra” in cui il sé incontra sia sé stesso che l’alterità, tanto interna quanto esterna ad esso stesso. L’incontro, così inteso, è struttura «costitutiva e fondante di ogni seduta terapeutica, intesa come atto di prendersi cura, cioè atto responsivo all’appello dell’altro»[3].

Lo psicologo, in quanto formato alla conoscenza e comprensione delle relazioni e dei rapporti intra e inter personali, fa di sé e della sua capacità di stare con l’Altro il principale strumento di cura.

Ma come abbiamo già detto, relazione e possibilità di incontro non sono ad esclusivo appannaggio della stanza di terapia e incroci interpersonali potenzialmente trasformativi fanno per fortuna parte dell’esperienza umana. La psicoterapia catalizza questa potenzialità, attinge ad essa per tutte quelle situazioni in cui l’urto con il quotidiano e la necessità di un cambio di prospettiva emergono e chiedono udienza, talvolta con urgenza, e per le quali è necessario dare una struttura e una strada da percorrere al proprio discorso. Una cornice, uno spazio e un tempo in cui sia possibile non solo iniziare e vedere un movimento, ma anche dargli storia e respiro e portarlo a compimento. Uno spazio e un tempo in cui l’Altro rappresentato dallo psicologo fornisca le basi per dare la possibilità di riprendere le fila della propria narrazione interrotta, inceppata, confusa, smarrita, inascoltata o non riconosciuta, per coglierne insieme il senso e poter poi riprendere ad essere in autonomia interlocutori di se stessi. Un incontro di questo tipo, con chiunque e in qualsiasi contesto, non è e non può essere un caso, ma scaturisce da uno sforzo, da un’intenzione specifica e direzionata:

«è il come, il modo in cui si pensa, né altrimenti si può pensare, il porsi di due esseri umani vis à vis, senza che le loro soggettività sia pur di poco si riducano, straordinariamente anzi intensificandosi … è un attivo suscitare movimenti e accordi e conflitti di frammenti – emozioni sepolte, ricordi, desideri, paure, immaginazioni –, un liberare energie imprigionate e far muovere l’individuo, additando nuove direzioni, “costruendo ponti” dove una promettente strada è interrotta. Appunto in questo mettersi in cammino insieme ci si trasforma, e nella trasformazione è la salvezza. Con l’uomo che adesso ho di fronte, dice il medico dell’anima, come «con ogni uomo io mi accorgo di essere un altro uomo»[4].

Fino a qui la relazione e l’incontro. E le parole? 

Abbiamo detto che sono relazione e parola, gli strumenti del mestiere dello psicologo clinico. E allora sono o non sono solo “chiacchiere” quelle con cui lo psicologo pretende di aiutare a lenire sofferenza e smarrimento, a valorizzare angoli in ombra nelle potenzialità individuali, a ridare speranza a progetti esistenziali irrigiditi?

Innanzitutto è necessaria una premessa terminologica. In estremissima sintesi, le parole sono le unità isolabili di significato attraverso cui si articola il linguaggio, che a sua volta è uno strumento di comunicazione e di espressione tipicamente umano. La chiacchiera è una possibile modalità di utilizzo del linguaggio, peculiare della quotidianità e del sentire comune, della medietà impersonale del vivere, un dire che nei fatti potrebbe essere di tutti e di nessuno[5]. Nella chiacchiera, non è riconoscibile il singolo, l’individuo, l’appropriazione del discorso e della riflessione, ma una dimensione pubblica e risaputa; è il terreno del si impersonale heideggeriano, del si fa e si dice così. Nel territorio della chiacchiera, ciò che conta non è ciò che diciamo ma il puro fatto di dire qualcosa, fine a se stesso.

La chiacchiera pertanto è un fenomeno umano, in alcuni casi necessario. 

Un fenomeno protettivo dal confronto con l’inquietudine dell’interrogare la fondatezza del proprio essere, e, così come l’abbiamo definita, è una possibilità comunicativa che appartiene al quotidiano e che al quotidiano serve. Banalizzando vergognosamente, non possiamo pensare di incontrare uno sconosciuto in ascensore o al mercato o per strada e rispondere ad una osservazione sul tempo approfondendone i risvolti tecnici o il nostro vissuto in relazione o interrogandoci sul senso del passare delle stagioni e raccontare della nostra metereopatia. Così come a volte abbiamo bisogno di leggerezza e medietà e di chiudere, parlare per il solo interesse (e talvolta bisogno) di farlo. È nell’assolutizzazione di questa aderenza alla chiusura che l’essere umano perde qualcosa delle sue potenzialità. È il chiudere l’intera possibilità interpretativa nel prestabilito, nel già detto e nel già dato che l’esistenza perde la potenzialità di divenire individuo attraverso il pieno domandarsi. Concedendosi l’opportunità di perdere l’ovvietà e la sicurezza del dato una volta per tutte, si apre la strada al vero domandare e all’ascolto. Può emergere il contenuto del discorso più del fatto che se ne parli, cosicchè se ne possa realmente parlare. È nell’interesse di ciò che l’uomo ha da dire, che l’uomo può comprendersi.

Ecco, allora la chiacchiera non è il livello di comunicazione a cui attinge lo psicologo nel suo lavoro di cura e di aiuto, non fosse altro, innanzitutto per il fatto che l'incontro avviene  nella sospensione della quotidianità. Lo psicologo è interessato a conoscere e comprendere chi si trova davanti ed è interessato a stimolare nel paziente questo livello di conoscenza e comprensione su di sé, sulla relazione e sul proprio essere-nel-mondo. Il paziente spesso arriva con una immagine di sé, degli altri e delle situazioni granitica e data una volta per tutte, spesso senza che neppure si sappia a chi appartenga davvero. È nella messa in discussione delle proprie radicalità che è possibile appropriarsi realmente di un punto di vista su di sé e sul proprio posto nel mondo che sia sfaccettato e aperto al mondo stesso. Lo psicologo è interessato a stimolare il paziente ad una assunzione di responsabilità rispetto al proprio essere-nel-mondo: poter parlare per sé, poter dire e pensare di e su di sé più di quanto è già stato detto e pensato, spesso da altri.

Già “solo” questo atteggiamento, intenzionato a voler comprendere l’Altro e la sua storia, è di per sé terapeutico e motore di cambiamento. A ciò si aggiunge la potenzialità ristrutturante insita nel linguaggio.

Parlare aiuta ad organizzare il pensiero.

Essendo linguaggio e pensiero in relazione dinamica fra loro, si influenzano e trasformano vicendevolmente. Parlare, dare voce al pensiero e al linguaggio interiore, significa tentare di approssimarsi all’esperienza. Farlo insieme a qualcun altro, sviluppare un linguaggio ed una narrazione condivisi, aiuta a (ri)strutturare la mia esperienza. Nel raccontarmi ad alta voce, porto il mio pensiero in uno spazio intersoggettivo e nel tentare di metterlo in parole mi rendo conto di quanto occorra uno sforzo maggiore di quanto potessi pensare. È un’esperienza che tutti facciamo comunemente: quante volte nel tentativo di verbalizzare a qualcun altro qualcosa, questo qualcosa “viene fuori” in modo inaspettatamente diverso o con più difficoltà di quanto credessimo? E questo anche perché dal parlato è tagliata via tutta una quota significativa e fondamentale dell’esperienza che si colloca ad un livello pre-verbale e pre-riflessivo, terreno elettivo di comunicazione nella primissima parte della vita degli esseri umani. Le qualità vitali[6] dell’esperienza, le sensazioni amodali attraverso cui impariamo a conoscere il mondo nei primi mesi di vita, che comunque permangono e continuano a passare per canali non verbali, fondamentali nell’incontro terapeutico e nella carne viva dell’incontro[7]. Sono “dati immediati” di conoscenza, elementi atmosferici che costituiscono “un sentire patico, che affonda le sue radici nel nostro corpo vissuto, nel corpo-che-siamo, ovvero in quella estensione vibrata e partecipata del nostro essere che tiene accesa una continua relazione simpatetica con il mondo” e che permette ai corpi-che-siamo di stabilire un contatto al di là della distanza della posizione prossemica assunta dai corpi-che-abbiamo, su un piano che precede linguaggio, pensiero e riflessione[8].

Ma al di là dello sfondo pre-riflessivo in cui siamo immersi, lo sforzo effettivo che facciamo per dire di noi ad un altro che con noi si mette in relazione, stimola un movimento, un riposizionamento continuo. Lo psicologo aiuta il paziente a compiere questo movimento, a spostarsi per cercare insieme vertici di osservazione utili a descrivere, raccontare, analizzare. Nel fare questo, si rimette in moto la potenzialità dialogica e trasformativa dell’umano e possono emergere “miti” e credenze che assumono altri colori e sfumature quando vi si avvicina da altre angolazioni.

Tutto quanto finora detto, avviene fra due persone, due esseri umani che seppur interpretandole e appropriandosene in modo personale condividono le medesime strutture costitutive dell’esistenza, due umanità in dialogo. Questa appartenenza è il dato di base, lo sfondo sempre presente sul quale si collocano però alcune specificità che differenziano la relazione terapeutica dalle altre, soprattutto da quelle amicali.

Perché anche se lo psicologo è partecipe e prova un sincero affetto per il paziente, comunque  non può essere un amico, se vuole essere di aiuto a chi gli si è rivolto, almeno non nel senso comune del termine. Ciò lo rende un rapporto estremamente singolare. Approfondiremo maggiormente le peculiarità di questo rapporto  in un altro articolo, sul blog nei prossimi giorni.

Blah blah - canvajpg

EP -Psicologo Psicoterapeuta Pesaro, 29 Ottobre 2020


Riferimenti bibliografici

[1] A. Masullo (2013) - I paradossi dell’Incontro e l’esercizio psicopatologico di Bruno Callieri. Comprendre 23, 2013-I:169-177

[2] B. Kimura (1992, trad. it. 2005) - Scritti di psicopatologia fenomenologica. Roma, Giovanni Fioriti Editore

[3] B. Callieri, M. Maldonato, G. Di Petta (1999) - Lineamenti di Psicopatologia Fenomenologica. Nuova edizione. Alfredo Guida Editore, Napoli.

[4] A. Masullo (2013) -  I paradossi dell’Incontro e l’esercizio psicopatologico di Bruno Callieri. Comprendre 23, 2013-I:169-177

[5] M. Heidegger (1927, trad. it. 1970) - Essere e tempo. Longanesi, Milano. 

[6] D.N. Stern (1985, trad. it. 1987) - Il mondo interpersonale del bambino. Bollati Boringhieri, Torino

[7] G. Di Petta. (2020) - La carne viva dell’incontro. POL.it (http://www.psychiatryonline.it/node/8390)

[8] (Ibidem)