Da allora si è assistito ad un interesse e ad una focalizzazione sempre più ampi sulle fasi precoci dei disturbi psicotici, in particolare di quello schizofrenico, nella sempre maggiore consapevolezza che un intervento clinico in questo periodo, in cui il disturbo non è ancora del tutto “cementificato”, potrebbe portare ad un migliore outcome terapeutico quando non addirittura prevenirne l’insorgenza (Nelson et al., 2009). Un altro importante obiettivo della ricerca in questo campo si colloca in un’ottica a monte della ricaduta terapeutica: la ricerca sulle fasi precoci della schizofrenia potrebbe portare ad una comprensione migliore delle componenti patofisiologiche in gioco, in quanto concentrata su un momento in cui gli effetti disgregatori della malattia conclamata non sono ancora intervenuti a “sporcare” il quadro (Nelson et. Al, 2009; Ballerini, 2012). La fase che possiamo definire prodromica (la fase precedente lo scompenso psicotico) e le sindromi cosiddette paucisintomatiche o sub-apofaniche (condizioni schizofreniche non produttive) [2], ci ricorda Ballerini (2012), condividono oltre ad una “inquietante indeterminatezza diagnostica” anche la possibilità di intravedere la psicosi nel suo nucleo più profondo, in un momento in cui questo non si trova sprofondato nella produttività appariscente e rigogliosa della sintomatologia positiva. Di fianco alla comunicazione a voce alta dei fenomeni produttivi, che ci colpiscono immediatamente ma quando spesso la macchina della psicosi è già irrimediabilmente troppo avanti per essere indirizzata su di una strada più sicura, si colloca una comunicazione sottovoce, un “silenzio della psicosi”, il cui messaggio comunicativo è più pregnante ed urgente in quanto proveniente dall’essenza stessa alla base del processo che porta all’espressività schizofrenica e in un momento in cui abbiamo la possibilità di intervenire (Ballerini, 2010b). Per cogliere tale messaggio, tuttavia, abbiamo bisogno di uno sforzo cosciente di sintonizzazione (Stanghellini, 2006).
Tale possibilità di “ascolto” del nucleo fenomenologico della psicosi, però, si accompagna alla difficoltà di definizione di tali fenomeni, che ci porta alla ben nota questione della “specificità del non specifico”, e alla necessità di indagare tali fenomeni con lenti differenti, non limitandosi allo sguardo nosografico del modello medico (sintomo-malattia) e affrontabile attraverso la compilazione di rating-scales, ma andando oltre indossando gli “occhiali” di una visione psicopatologica (Ballerini, 2010b; Ballerini, 2012).
Oltre a questi fondamentali obiettivi clinici e di ricerca, alla base della focalizzazione sulla questione degli esordi psicotici, vi è un altro interesse, prioritario: Haug e colleghi (2014) ricordano come i disturbi mentali siano fra le attuali maggiori cause di disabilità nei paesi occidentali, e fra tali disturbi l’asso di briscola è rappresentato da quelli psicotici, schizofrenia in primis. Ciò è anche dovuto al fatto che tali condizioni emergono, spesso e volentieri, durante la tarda adolescenza e si protraggono per tutta l’età adulta, trascinando con sé una considerevole diminuzione nelle capacità adattive del soggetto in tutte le attività di partecipazione al proprio mondo sociale e relazionale. Questi aspetti, inoltre, non sono sempre così evidenti, se consideriamo sia quanto la disabilità conseguente al disturbo possa rimanere in qualche modo nascosta, venendo attribuita a pigrizia o peculiari scelte di vita, sia quanto sia difficile andare oltre una visione non puramente sintomatologica della compromissione della qualità della vita (Herrman, 2000). Il benessere soggettivo è da qualche anno oggetto di una maggiore e più fina concettualizzazione, avendo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (1995) definito la Qualità della Vita (QOL, Quality Of Life) come composta da diverse dimensioni riguardanti la percezione soggettiva della propria posizione nel proprio mondo culturale e sociale, in realzione agli obiettivi e alle aspettative che tale mondo propone (WHOQOL Group, 1995). Concettualizzata in questo modo la qualità della vita, è possibile comprendere come la condizione psicotica possa intaccarla in maniera abbastanza profonda e come allora una sua valutazione (Herrman, 2000) e considerazione possa aiutare anche in senso terapeutico, e come una individuazione precoce del disturbo possa contribuire a porre le basi per intervenire direttamente e precocemente anche laddove l’individuo percepisce soggettivamente di aver più bisogno. Come sottolineato da Cloninger (2006) la psichiatria non ha mostrato risultati nella direzione di un miglioramento dei livelli di soddisfazione e benessere nella popolazione, e ciò è la risultante di un focus eccessivo sugli aspetti stigmatizzanti della malattia mentale e nella sottostima degli aspetti positivi e adattivi in possesso dell’individuo. In quest’ottica una intercettazione precoce della vulnerabilità schizofrenica, può aiutare i clinici a incontrare i pazienti sugli aspetti maggiormente adattivi e funzionali della propria personalità che ancora non sono stati travolti dall’intervento disgregatore del processo psicotico, ma che ad esso sono più suscettibili; tentando perciò di potenziare ed accogliere tali “dispositivi di vulnerabilità”, sintonizzandosi con la dialettica umana costantemente in bilico fra salute e malattia in un progetto continuo di costruzione/ri-costruzione della strada del soggetto verso il proprio posto nel mondo della vita (Stanghellini, 2009a). Anche in questo caso, però, occorre inforcare gli “occhiali” neccessari per una visione qualitativamente differente, cioè quelli di una visione fenomenologica, che non sostituisca la visione nosografica necessaria per determinati obiettivi di ricerca e di comunicazione specialistica, ma che vi si affianchi, perseguendo il diverso obiettivo dell’incontro clinico con la soggettività del paziente.
L’importanza di una individuazione precoce è data anche dal fatto che pazienti con un tempo minore di psicosi non trattata (DUP, Duration of Untreated Psychosis), mostrano minori tassi di suicidalità, livelli più bassi di sintomi negativi e un migliore funzionamento sociale (Larsen et al, 2011). Più in generale, sono diversi gli studi [3] che, da diversi anni, hanno mostrato come la DUP possa essere predittrice di un decorso sfavorevole. Häfner & Maurer (2001) selezionano i risultati di 8 ricerche che studiano, da prospettive diverse, quanto tempo trascorra prima che il soggetto portatore del disturbo per la prima volta abbia un contatto con i servizi o richieda un trattamento. Da questi dati si rileva che l’intervallo di tempo fra l’emergenza dei primi segni prodromici e il primo contatto (DUI, Duration of Untreated Illness) è di diversi anni, con un periodo di DUP medio di 1 anno. Il primo contatto con i servizi di salute mentale è generalmente determinato dalla manifestazione in acuto del disturbo, rimasto pressoché silente (se si considera solo la dimensione sintomatologica positiva) per diversi anni; è il precipitare drammatico nel primo episodio psicotico che porta ai servizi, ma in molti casi (circa il 73%) ciò che è rimasto inosservato è il covare di un lungo periodo – mediamente da 2 a 4 anni - di sintomatologia negativa e/o di segnali non-specifici di disagio e di difficoltà (Häfner, Maurer, Löffler, Heiden, Stein, Könnecke, & Hambrecht, 1999). Tale periodo di manifestazioni prodromiche si colloca quindi in un’area di confine nebulosa e poco definita, tra processi maturativi fisiologici e patologici, tra vulnerabilità e fattori di rischio: su tutto questo vanno concentrandosi i maggiori sforzi di individuazione precoce, soprattutto se consideriamo che il deterioramento clinico, funzionale e sociale dei pazienti tende a stabilizzarsi entro i primi due anni dall’esordio (Leff et al., 1991) e che sembra ormai accertato il fatto che se il disturbo viene intercettato nelle sue fasi iniziali, l’intervento terapeutico ha una maggior probabilità di successo (Epifani & Bove, 2009).
Se poi vogliamo spostarci ad un ambito più pratico e meno patico, una migliore gestione delle, e un intervento preventivo nelle, condizioni psicotiche ha anche una non trascurabile ricaduta economica sui costi a carico dei diversi sistemi sanitari (Ravasio, Sanfilippo, De Paoli, Cerra, Fratino, & Della Giovanna, 2009; Haug et. al, 2014).
In un articolo sui costi della schizofrenia in Italia, per esempio, Ravasio et al. (2009) effettuano un’analisi osservazionale retrospettiva sulle informazioni ricavabili dal database dell’Azienda Sanitaria Locale della Provincia di Pavia, riguardante circa 500.000 assistiti. I dati definibili di consumo sanitario, associati ad una base campionaria formata da tutti gli assistiti diagnosticati come schizofrenici entro la fine del 2006 e riferiti ai costi dell’anno 2007, comprensivi delle prestazioni erogate sia intra- che extra-regione, in particolare hanno riguardato: consumi associabili ai ricoveri ospedalieri, alle prestazioni ambulatoriali specialistiche, alle operazioni di diagnostica strumentale, alle prestazioni psichiatriche e a quelle farmacologiche. La voce di costo incidente in maniera maggiore sul costo medio totale annuo è rappresentata dai ricoveri (69,5%), cui seguono semiresidenzialità (13,6%), farmacoterapia (9,5%), interventi terapeutici (7,4%). Ovviamente non è possibile, come notano gli stessi Autori, considerare tali dati come completamente rappresentativi [4] della intera realtà Italiana, men che mai internazionale, ma ciò che preme sottolineare è come il ricovero ospedaliero rappresenti una voce di costo veramente imponente, sulla quale sarebbe auspicabile riuscire ad incidere. Sono diversi gli studi (Mihalopoulos, McGorry, & Carter R.C. 1999; Cullberg et al., 2006; Mihalopoulos, Harris, Henry, Harrigan, & McGorry , 2009; Singh, 2010; Fusar-Poli et al., 2013), fra cui uno recente italiano (Serretti et al., 2009), che mostrano come un intervento precoce abbia una ricaduta in termini di costi-benefici che vale gli sforzi necessari alla formazione di un team specifico. La ricaduta economica è dovuta sia alla riduzione dei ricoveri sia alla loro minore durata, oltre che ad un migliore outcome (minori tassi di ricaduta) il quale si traduce a sua volta in un minore numero di ricoveri futuri. Il risultato di un’individuazione/intervento precoce si traduce inoltre in un miglioramento nei livelli sia di qualità della vita soggettivamente percepita che di disabilità funzionale e sociale, determinando anche un aumento nei tassi occupazionali dei soggetti, tutti aspetti che contribuiscono ulteriormente ad abbattere indirettamente i costi a livello sia sanitario che sociale.
Ulteriore ragione, non meno importante delle altre, a favore di una individuazione precoce del disturbo, è il notevole carico (funzionale, emotivo, economico) che esso rappresenta sia per il soggetto che per la sua famiglia (Klosterkötter, Schulze-Lutter, Bechdolf, & Ruhrmann, 2011).
Quanto precoce?
Quando si parla di early intervention è importante fare una distinzione per specificare bene a quale early ci si riferisca: stiamo parlando di una individuazione precoce pre-morbosa o prodromica?
Stiamo parlando di fattori di rischio per lo sviluppo di un disturbo che ancora non si è manifestato o di una fase in cui il disturbo è già presente ma in fase attenuata?
La fase prodromica è, per definizione, la fase nascente del disturbo, per cui si parla talvolta anche di schizofrenia latente, mentre quando parliamo di fattori di rischio, questi non sono necessariamente legati al disturbo ma sono correlati alla probabilità minore o maggiore di svilupparlo (Heckers, 2009) rilevata attraverso indagini statistiche effettuate su familiari di pazienti schizofrenici o retrospettivamente sugli stessi pazienti.
Quindi in fase prodromica, siamo già, per definizione, in presenza della condizione psicotica, senza che però questa sia conclamata: il percorso verso lo scompenso è avviato, ma non abbiamo ancora gli elementi per porre diagnosi; mentre quando un soggetto presenta più o meno fattori di rischio, egli potrebbe (o meno) andare incontro allo sviluppo di un disturbo. Se tali fattori di rischio costituiscono fase prodromica è cosa accertabile solo a posteriori (Heckers, 2009), una volta che il disturbo si sia effettivamente, eventualmente, manifestato. Ma a livello di individuazione è il contrario: i fattori di rischio possono essere rilevati prospettivamente, mentre i prodromi sono diagnosticabili come tali solo una volta che il disturbo sia emerso (Heckers, 2009). Diverso ancora è poi parlare di fase pre-morbosa, la fase cioè che precede qualsiasi manifestazione di un disturbo, per cui precedente anche la fase prodromica (Knowles & Sharma, 2004). Ancora una volta, intuitivamente, siamo in presenza di un’etichetta applicabile a posteriori.
Tali differenze si rispecchiano nelle focalizzazioni delle diverse ricerche, anche se non mancano utili integrazioni.
Il termine “prodromico” deriva dal greco e significa letteralmente il predecessore di un evento, indicando tradizionalmente i primi segni e sintomi che precedono il manifestarsi in acuto di una malattia, per cui per poter intervenire in questa fase è prima necessario individuare tale sintomatologia precorritrice (Knowles & Sharma, 2004).
Lo sviluppo di una tale criteriologia richiede l’osservazione di casi prodromici, ma perché tali casi siano definibili realmente come prodromici è necessario essere certi che svilupperanno sicuramente la condizione in esame: per cui il problema è che il termine è, per sua natura, retrospettivo e attestabile a posteriori, a meno di non aver individuato criteri patognomonici certi (Knowles & Sharma, 2004).
Fino a che non si possiedono criteri diagnostici certi, una predizione del disturbo non è possibile, da cui l’unico modo che i ricercatori hanno avuto per poter iniziare a definire questo periodo è stato indagare retrospettivamente soggetti già diagnosticati, con tutte le complicazioni che un tale metodo si porta dietro, prima fra tutte il fatto che i racconti retrospettivi dei pazienti sono soggetti ai fisiologici errori legati alla memoria: difficile rievocazione tanto più tempo è intercorso dall’evento, e ricostruzione personale piuttosto che semplice richiamo (Knowles & Sharma, 2004).
Nonostante tutte queste difficoltà, le indagini retrospettive unite ad altre fonti di dati empirici (come le ricerche sui parenti dei pazienti) hanno portato alla costruzione di set di criteri da poter testare prospettivamente, diversi a seconda del punto osservazionale da cui sono derivati.
[1] Issue Theme: Early Detection and Intervention in Schizophrenia
[2] In tali condizioni non è avvenuta la rivelazione apofanica (Conrad, 1958): il soggetto non ha ricostruito un nuovo mondo idiosincratico come risposta alla perdita dei significati condivisi. Sono forme “sfuggenti” e nosograficamente contestate che si collocano fra la schizofrenia simplex Bleuleriana e i gravi disturbi di personalità. La tendenza è la loro diluizione nei sintomi negativi, con conseguente perdita di specificità. Tale specificità è di difficile caratterizzazione, una paradossale “specificità a-specifica” che prende la forma di “una sorta di crampo, di stagnazione nel percorso psicotico”. Esemplare studio di queste forme è il testo di Blankenburg (1971) sulla perdita dell’evidenza naturale. (Ballerini, 2012)
[3] Per
citarne solo alcuni, fra i primi: Crow, MacMillan, Johnson, & Johnstone,
1986; Gross, Huber, Klosterkötter, & Linz, 1987; Helgason, 1990; McGorry,
Edwards, Mihalopoulos, Harrigan, & Jackson, 1996.
[4] Gli stessi Autori evidenziano inoltre come “Infine,
sarebbe stato più interessante e sicuramente più esaustivo considerare, oltre
alla prospettiva del SSRL, anche quella della Società, valutando e valorizzando
tutte le altre risorse (es. i costi indiretti) che, sicuramente, avrebbero
determinano un sensibile aumento del peso economico della schizofrenia.”
Dr.ssa Eleonora Palma
PSICOLOGO PSICOTERAPEUTA
Corso XI Settembre, 115
61121 Pesaro