Uno dei pregiudizi più difficili da
superare è quello legato all’equivalenza psicologo = dottore dei matti. Ma chi sono “i matti”?
“Matto” è un termine utilizzato generalmente
in senso dispregiativo per indicare genericamente chi sia affetto da una
qualche patologia mentale o chiunque esca dai canoni di una supposta normalità
o sia “sopra le righe”. Il tono è tipicamente di scherno o biasimo e si
accompagna a convinzioni sulla malattia mentale stereotipate e spesso molto
distanti dalla realtà. Il pregiudizio
sottostante, più o meno esplicito, è che chi soffre di una patologia mentale
sia quasi una persona di serie B, con minori diritti e maggiori responsabilità
nei confronti della propria condizione. Tutto ciò ha pesanti e dolorose conseguenze per il soggetto, per chi gli è accanto
e per l’intera comunità. Se infatti consideriamo la diffusione e la probabilità
che ogni persona ha di incorrere in problematiche legate alla salute mentale
lungo l’intero corso della propria vita (circa un quarto della popolazione adulta, 18-65 anni)[1] e a quanto lo stigma sociale (dal
lat. stigma (-ătis) «marchio, macchia, punto»)[2] può incidere sulle
modalità di affrontarle e di richiedere aiuto, le ripercussioni sono notevoli
non solo per il diretto interessato ma anche a livello familiare,
relazionale e sociale.
Ma torniamo alla questione iniziale. Lo psicologo quindi è o no il dottore dei “matti”?
La risposta secca e
immediata sarebbe quella veloce che abbiamo visto inizialmente. Ma se consideriamo l’associazione di senso comune per cui
matto=persona che soffre di un disturbo mentale? Prima di tutto, ribadiamo con forza un dato di fatto che dovrebbe essere scontato ma purtroppo
così non è: la patologia mentale non qualifica la persona su una supposta scala
morale e valoriale. Un essere umano che soffre di una patologia mentale è un
essere umano che soffre di una patologia mentale. Niente più, niente meno. Ha
suoi limiti, sue risorse, sue vulnerabilità, sue sofferenze, sue gioie, suoi
difetti, suoi pregi; ha, cioè, sue peculiarità specifiche, alcune ovviamente anche
legate al carico della propria patologia, ma che vanno a colorare le medesime
strutture costitutive dell’esistenza di ogni altro essere umano.
Secondariamente, ricordiamo come il disagio mentale sia variamente
graduato, da situazioni maggiormente gravose, invalidanti e croniche ad altre
anche piuttosto comuni, sfumate e legate a situazioni contingenti. Spesso i
pazienti dicono “non pensavo di arrivare a tanto”, con un senso di vergogna per
sentirsi alla fine costretti a ricorrere allo "strizzacervelli". Il sottotesto,
spesso neanche così nascosto ma anzi chiaramente esplicitato, è di avere il
timore di essere un caso grave, patologico, "da psicologo", appunto. Ma anche qui siamo in presenza di
un pregiudizio di fondo, e cioè che chi sente la necessità di ricorrere allo
psicologo magari non è “matto” del tutto, ma sicuramente ha un problema grave.
Ora, al di là del fatto che ovviamente ci sono situazioni oggettivamente gravi
e complesse, in cui si intrecciano livelli di intervento diversi, la gravità è
anche un concetto relativo: grave [4] è un
peso che è duro da sopportare per chi lo sostiene, e in quanto tale non è chiaramente obiettivabile, soprattutto disgiunto dal
soggetto che lo porta. Uno stato ansioso può essere “banale” per qualcuno in un
determinato momento e paralizzante per qualcun altro o per la stessa persona in
una diversa situazione, ma il fatto di ricorrere ad uno psicologo non dice
nulla in merito. C’è chi per caratteristiche personali proprie è portato ad
interrogarsi, chiedere aiuto e chi no, ci sono ambienti, relazioni, aree
geografiche e momenti storici in cui ricorrere alla terapia è più o meno sostenuto,
etc. Quale che sia comunque l’entità del
disagio, è una questione che, in vario modo, riguarda tutti.
Potrebbe essere allora più utile iniziare ad allontanarsi
dalle etichette e dai pregiudizi per avvicinarsi a ciò che si prova e sente, al
di là del fatto che possa o meno rientrare nel grande calderone di ciò che può essere
o meno un disturbo mentale, per potersene prendere cura e migliorare la propria
qualità di vita. Molto di questo atteggiamento di diffidenza e vergogna legato
al prendersi cura della propria salute psichica e del proprio sentire ha a che
fare anche con la svalorizzazione delle emozioni e con l’esaltazione del pensiero positivo (ne
ho parlato qui), così come con l’idea che sia un segno di debolezza (vedi FAQ #3).
Fatte queste doverose premesse, la
risposta alla domanda iniziale può diventare: lo psicologo è ANCHE il dottore
dei “matti”, ma non solo.
Lo psicologo è per chiunque voglia interrogarsi e fare di questo domandare una risorsa per il proprio progetto di mondo così come per chiunque si ritrovi smarrito e/o in difficoltà di
fronte ai propri vissuti di sofferenza, più o meno intensa, più o meno
soverchiante, più o meno contestualizzabile. Indipendentemente dal fatto che
l’eventuale smarrimento, confusione, paura, ansia, dubbio, preoccupazione,
impotenza, rabbia, tristezza, o qualsiasi altra emozione stia mettendo in
questione la persona e la propria relazione con se stessa e il proprio mondo
sia legata ad una vera e propria patologia mentale.
La
realtà è che la maggior parte di coloro che si rivolgono allo psicologo, sono persone che hanno problemi quotidiani e ordinari come tutti e che
in un qualsiasi momento della propria vita possono attraversare difficoltà
maggiori nell’affrontarli. Ci sono situazioni tipicamente destabilizzanti (cambiamenti
lavorativi, matrimoni, diventare genitori, laurea, compleanni e nuove fasi di
vita, rotture affettive, incidenti, lutti, diagnosi mediche, etc.), di fronte
alle quali può capitare di avere la sensazione di non farcela, di girare a vuoto,
di essere bloccati senza vie di fuga, di non riuscire ad avere una relazione
serena con se stessi e/o con gli altri, di sperimentare emozioni o reazioni che
sembrano non appartenerci o che comunque ci fanno vivere male. In queste
situazioni, può essere opportuno considerare la possibilità di rivolgersi ad
uno psicologo per esplorare insieme quanto sta accadendo. Ma le motivazioni che possono
portare a richiedere un incontro con lo psicologo, e beneficiarne, sono di
varia natura. Non necessariamente, o non solo, un particolare momento di
difficoltà ma anche “semplicemente” la voglia, il bisogno, il desiderio di
conoscersi meglio e godere appieno delle proprie risorse e potenzialità. Ed ecco che allora intraprendere
un percorso di terapia può rappresentare l’occasione che la persona si dà di
conoscersi e (ri)aprire un dialogo proficuo con se stessa. Volersi
riappropriare di un miglior margine di manovra nel proprio relazionarsi con se
stessi e col proprio mondo, voler interrogare e comprendere le proprie pieghe,
è motivo più che valido per bussare alla porta dello psicologo: farlo significa
darsi l’opportunità di prendersi cura del proprio essere al mondo.
[1] https://www.epicentro.iss.it/mentale/epidemiologia-mondo
https://www.sburover.it/psice/epidemiologia/Disturbi_mentali_Italia.pdf
https://www.epicentro.iss.it/mentale/epidemiologia-europa
https://www.osservatoriosullasalute.it/wp-content/uploads/2019/10/Tiziana-CS-Focus-Disagio-mentale-Osservasalute_ott-2019-DEF.pdf
[2]https://www.treccani.it/vocabolario/stigma1/
[4]https://www.treccani.it/vocabolario/grave/