2. AUTISMO E CRISI DEL SENSO COMUNE COME DISTURBO DELL’INTERSOGGETTIVITÀ 


2.1. Nascita del termine autismo

La concettualizzazione della nozione di autismo ha subito, dalla sua comparsa nella terminologia psicopatologica, un’evoluzione che ha visto coinvolta primariamente la prospettiva fenomenologica, la quale per prima cosa ne sottolinea il carattere di fenomeno intersoggettivo, e non di sintomo (nel senso medico) (Bovet e Parnas, 1993). L’immagine centrale fin dalla sua comparsa è sempre stata quella del ritiro e della chiusura (ricercati attivamente o sofferti passivamente), del distacco dalla realtà esterna e dagli altri, “e ne è rimasta uno degli aspetti fenomenici più evidenti” (Ballerini, 2002, p. 13).

Il termine autismo è stato introdotto da Bleuler (1911) il quale nella sua opera fondamentale Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie così lo descrive: 

“Gli schizofrenici gravi non hanno più alcun rapporto col mondo esterno; vivono in un mondo a sé; se ne stanno con i loro desideri, che ritengono appagati; o con la sofferenza della propria persecuzione; limitano al massimo i contatti col mondo. Chiamiamo autismo il distacco dalla realtà e la predominanza della vita interiore. […] In casi meno gravi, la realtà perde più o meno importanza solo dal punto di vista logico o affettivo. […] Non sempre l’autismo è riconoscibile a prima vista. Il comportamento non è molto significativo. Solo un’osservazione prolungata dimostra quanto i malati cerchino sempre e solo le proprie vie e quanto poco si lascino avvicinare dall’ambiente” (Bleuler, 1911, pp. 75-77). 

Nell’accezione bleuleriana, perciò, il termine enfatizza il ritiro alla vita interiore, e se il concetto di “realtà” si estinguesse in quello di “mondo esterno”, l’autismo schizofrenico nella sua definizione di distacco dalla realtà potrebbe essere inteso come sinonimo di interiorizzazione, ma ciò è ben lontano dall’essere vero, e la sovrapposizione risulta erronea (Minkowski, 1953).

I due aspetti su cui poggia il concetto di autismo bleuleriano sono la predominanza della fantasia (“l’aspetto per così dire «positivo»”) e il distacco dalla realtà (“l’aspetto per così dire «negativo»”): il primo viene considerato da Bleuler come il marchio distintivo dell’autismo, il secondo appare invece troppo generico per definirlo (anche se Bleuler non ha stabilito fra i due concetti una organizzazione gerarchica). Inoltre Bleuler (1911) considera il pensiero autistico schizofrenico come l’esasperazione di un processo fisiologico, che considera una sorta di “autismo normale”, riscontrabile prototipicamente nei fenomeni di sogno e di rêverie e nei quali il pensiero “normalmente” si stacca totalmente dalla realtà. Nel pensiero bleuleriano l’ipertrofia del mondo fantasmatico interiore e la fuga in esso ai danni della realtà, è resa possibile, o quantomeno favorita, dai processi di scissione (il meccanismo patogenetico fondamentale nella sua teorizzazione)[1], che liberando il pensiero dal suo legame con la logica, esaspera al massimo quella che è nella vita comunque una condizione possibile nella vita psichica di ogni individuo (Bleuler, 1911; Minkowski, 1953; Ballerini, 2002).

Il concetto si dimostra difficilmente inquadrabile in una semplice descrizione medica, infatti della lunga e ricca enumerazione di manifestazioni cliniche che Bleuler propone (poca capacità di entrare in contatto con gli altri, ritiro e inaccessibilità, indifferenza, rigidità di comportamento e di adattamento, squilibrio caratteristico di valori e obiettivi, comportamento inappropriato, logica idiosincratica e propensione al pensiero delirante) nessuna è necessaria o sufficiente per l’attestazione di autismo. Il criterio “ritiro nella fantasia” è ben lungi dall’essere la caratteristica fondamentale, e, nel caso venga considerato come l’essenza del fenomeno autismo, la presenza di soggetti schizofrenici che appaiono dotati di una nota di estroversione e di altri che non mostrano affatto la presenza di una ricca vita interiore, si pone come dimostrazione empirica della sua falsità come necessario (Parnas et al., 2002). 

2.2. Dal pensiero all’attività

L’autismo, inteso come sinonimo di interiorizzazione e di ritiro fantasmatico, affronta una sola faccia della questione: la schizofrenia non è rappresentata esclusivamente da soggetti passivi e immersi nelle proprie fantasie; vi è anche un’attività schizofrenica, un agire nel mondo esso stesso descrivibile come autistico (Minkowski, 1953). Quest’attività, profondamente alterata e caratteristica, è stata considerata particolarmente da Minkowski, il quale ha affrontato lo studio dell’autismo attraverso la lente di un approccio al problema più globale, e finendo con il definirlo in senso più ampio come un aspetto generale della vita schizofrenica (Mistura, 1998).

Se le prime interpretazioni del fenomeno autistico lo volevano particolarmente come un disturbo del pensiero, caratterizzato dal ripiegarsi passivo del soggetto su se stesso e sulle propria esagerata vita interiore e di fantasia, nell’eminente psicopatologo polacco il concetto perde questa univoca connotazione per acquistare significato in relazione alla totalità della persona e assumendo la forma di un caratteristico modo di esistere e rapportarsi al mondo e all’Altro (Mistura, 1998).

Minkowski giunge a queste concettualizzazioni anche grazie al suo modo di guardare allo stato mentale non come fattore isolato, ma sempre come una parte espressione del tutto da cui ha origine: la struttura complessiva della soggettività. Gli stati mentali abnormi sono, nella sua visione, la diretta espressione dell’alterazione basica dell’esperienza e dell’esistenza soggettiva. Ciò implica per esempio, in particolar modo, l’alterazione della temporalità vissuta e dell’elementare relazione con il mondo. Questi cambiamenti alla base del vissuto soggettivo, assumono un pattern specifico nelle maggiori sindromi psichiatriche, il quale ne costituisce l’essenza o disturbo generatore, e promana dai sintomi, ai quali da forma, interconnessione ed evoluzione (Parnas et al., 2002).

Le concettualizzazioni dell’autismo che derivano dai due grandi psicopatologi, non sono due modi tra loro incompatibili di vedere il fenomeno, quanto la focalizzazione su aspetti differenti, emergenti dal puntare la propria lente d’osservazione su diverse manifestazioni: Bleuler ha focalizzato la propria attenzione maggiormente sul “pensiero autistico”, Minkowski sull’“attività autistica”. Da entrambe le visioni emerge un’abnorme forma di interazione con il mondo, anche se diversamente espressa (Minkowski, 1953).

Minkowski distingue due forme: un autismo definito “ricco” e un autismo definito “povero”. Il primo è riferibile alla preponderanza del mondo immaginifico e sognante, il secondo (maggiormente afferrabile nelle forme schizofreniche cosiddette paucisintomatiche) è quello che per Minkowski mostra l’essenza pura dell’esistenza schizofrenica, in cui l’aspetto caratterizzante è la rottura dei legami fra quello che egli definisce lo slancio vitale e l’ambiente. Tale rottura appare evidente nell’“attività autistica”, la quale si configura primariamente nel rapporto del soggetto schizofrenico con il mondo: il soggetto agisce nei confronti dell’ambiente, ma in modo abnorme e scevro di ogni tipo di “sintonia” con esso (Minkowski, 1953).

2.3. “Schizoidia” e “sintonia”

Minkowski (1927) definisce vitali (rifacendosi a Bleuler), nel suo testo sulla Schizofrenia, due principi, “schizoidia” e “sintonia”, i quali qualificano l’atteggiamento della persona nei confronti del proprio ambiente in relazione al gioco dinamico in cui si inseriscono: essi rappresentano due funzioni che si muovono in un rapporto variabile di proporzioni, in base al quale ogni individuo assume la propria caratterizzazione particolare. La qualità che li differenzia è la capacità di “vibrare all’unisono con l’ambiente”: nella sintonia è presente, nella schizoidia è assente. Quella che entra in gioco è la nozione di “contatto vitale con la realtà”, che sottolinea l’atteggiamento, tanto nella patologia quanto nella normalità, della persona nei confronti dell’ambiente e l’essere capaci (nella normalità) o meno (nella patologia) di confondersi con esso e di impregnarsi degli avvenimenti che lo animano. Sono questi due principi giocano nel soggetto in un rapporto reciproco, il cui risultato regola l’atteggiamento nei confronti degli oggetti del mondo (Minkowski, 1953).

Schizoidia e sintonia non sono sovrapponibili ai tratti caratteriali che vengono solitamente impiegati per descrivere le persone (bontà, socievolezza, irritabilità, ecc.):  

“la schizoidia e la sintonia si collocano, per così dire, tra questi tratti di carattere, dando a ciascuno di essi una coloritura particolare e determinando tutto il modo di essere dell’individuo rispetto all’ambiente” (Minkowski, 1953, p. 19). 

Ciò che dona patologicità a queste funzioni è la stessa caratteristica che patologizza anche le “umane possibilità di essere” dell’autismo: non è solo il prevalere quantitativo, ma la rottura del rapporto dialettico, l’irrigidimento, il fissarsi non come alternativa ma come costrizione, come diktat. Ballerini sottolinea come  

“l’autismo, come ogni fenomeno nucleare nelle psicosi, è niente più e niente meno che una condizione di possibilità immanente a ogni vita umana, a ogni esistenza, ma che nella normalità è in rapporto dialettico con le altre possibilità di essere: la declinazione patologica sta appunto nel suo prevalere in modo egemonico e coatto, che sigla il passaggio dal «poter essere» al «dover essere»” (Ballerini, 2002, pp. 20-21). 

Il carattere fondamentale della dinamicità è sottolineato anche da Minkowski, a riguardo delle due tipologie di rapporto con il mondo: l’importanza per la non patologizzazione del soggetto nel suo rapporto con l’ambiente è data dalla fluidità di tale relazione e nella libertà di potersi muovere avanti e indietro fra il distacco dall’ambiente a salvaguardia della propria originalità e la ricettività ad esso. Nella rottura che può configurarsi nel contatto con l’ambiente, i fattori di sintonia possono perdersi, sottraendo così alla schizoidia l’elemento regolatore che le permette di svolgere la sua parte nel mantenimento dell’equilibrio, necessario all’essere umano per non superare quei limiti intuitivi che rendono possibile il suo armonico essere nel mondo (Minkowski, 1953; Ballerini, 2002)[2]. Se in una relazione dialettica di questo tipo uno dei due elementi cade, non vi è più rapporto, non vi è più relazione, non vi è più equilibrio, ma solo dominio dell’elemento rimasto. La caduta dei fattori sintoni, ovvero dei detentori dell’intuizione della misura e dei limiti, ha come conseguenza la “schizofrenicizzazione” dell’attività individuale, nelle diverse forme caratteristiche del disturbo. È qui che è riscontrabile il concetto di “attività autistica”: un’attività irrigidita che non risponde alle regole e ai limiti del contatto intuitivo con l’ambiente e che è diretta conseguenza della perdita del “contatto vitale con la realtà”. Da ciò emerge la concettualizzazione minkowskiana della schizofrenia in cui l’attività autistica (abnorme nel suo essere definalizzata, incoerente, indecifrabile, rigida) è dovuta all’aspetto deficitario di perdita di questa forma intuitiva di contatto, mostrato “in forma pura” dall’autismo povero. La “perdita di contatto vitale con la realtà” è in Minkowski il “disturbo generatore” schizofrenico, l’essenza della patologia, da cui deriva un danneggiamento della dinamicità psichica e un’uscita dai confini nel ciclo dell’attività personale (Minkowski, 1953).

In questa evanescenza del radicamento nell’ambiente, del contatto vitale, si coglie l’autismo, il quale si configura come un modo particolare di essere del soggetto, una forma di vita psichica. Nella forma ricca di esso, Minkowski coglie l’idea di una “compensazione fenomenologica”:  

“L’autismo ricco è il frutto dell’incontro fra un disturbo primario, la perdita della naturalità dell’esperienza espressa nella perdita di contatto vitale, e i processi di compenso che colmano o tentano di colmare il vuoto che ne deriva” (Ballerini, 2002, p. 75). 

 In Bleuler l’autismo era considerato un sintomo conseguente al disturbo delle associazioni, Minkowski lo considera invece l’essenza stessa della schizofrenia, in quanto peculiare modo di esistere (Ballerini, 2002). 

2.4. Il senso dei limiti

L’elemento regolatore della fluidità del rapporto di contatto con il mondo è definito da Minkowski “sentimento di armonia con la vita”, ed è concettualizzabile come una sintonia con il mondo di ordine pre-razionale e pre-verbale dalla quale deriva il carattere di naturalità ed ovvietà del mondo dell’intersoggettività e il senso dei limiti e della misura che in tale mondo guida l’azione e il pensiero. Le manifestazioni dello stile di vita definito come autismo schizofrenico sono molteplici e assumono diverse forme (oppositività, comportamenti definalizzati, introversione, ritiro nella fantasia, allontanamento dagli altri, chiusura della comunicazione) non univocamente descrivibili come passive o attive, che la fenomenologia ha indagato e indicato con diverse espressioni tutte riferibili alla compromissione del contatto fra l’esistenza individuale e l’evidenza del senso comune nell’esperienza intersoggettiva: 

“esiste un ampio overlap fra le tre concezioni dell’autismo come «perdita di contatto vitale con la realtà» (Minkowski), come «inconsistenza dell’esperienza naturale» (Binswanger), l’incapacità a «lasciare le cose essere» nell’incontro con esse, a «sostare tranquillamente vicino alle cose», o come «crisi globale del common sense» (Blankenburg). Tutti questi aspetti contengono in nuce il concetto della mancanza di un accordo tacito, pre-verbale e pre-tematico, che si accomuna al mondo e agli altri” (Ballerini, 2002, p. 90). 

Questo precario accordo intersoggettivo con l’ovvietà del mondo, si configura sia come fulcro della vulnerabilità schizofrenica che come sua risposta contingente sotto forma di modo di esistenza autistica. Ballerini (2002) propone di considerare l’atteggiamento autistico oltre che come una possibilità della vita psichica insita in ogni individuo (come proposto da Bleuler) anche come una modalità umana “di difesa e di elaborazione” di fronte a diversi percorsi di vita, che sfocia in quella che viene definita “schizofrenia” solo nel caso della presenza nel soggetto del substrato difettoso rappresentato dalla crisi della sintonia intersoggettiva con il mondo del senso comune. La schizofrenia si costituirebbe in presenza dell’impatto fra processi psicopatologici, non necessariamente univoci, e il substrato autistico che si configura come vulnerabilità schizofrenica. In questa proposta riecheggia la visione minkowskiana:  

“[…] la schizoidia e la schizofrenia in quanto concetti restano nettamente separate l’una dall’altra. L’una riguarda un fattore costituzionale ed […] immutabile nello stesso individuo, l’altra una malattia che tende a progredire […] laddove i meccanismi di difesa che lo psichismo può contrapporle non riescono a frenarla” (Minkowski, 1953, p. 31). 

L’autismo, in quanto modalità di esistenza, è un fenomeno riferibile solo alla globalità del soggetto: non è frammentabile in manifestazioni comportamentali osservabili. Esso appartiene ad un “piano di indagine” diverso da quello dei “sintomi negativi”, delle “rating scales”, delle definizioni mediante criteri oggettivi o misurabili: l’autismo “è un colore o un’atmosfera” che pervade ogni manifestazione della schizofrenia, piuttosto che essere una di esse (Ballerini, 2002).

In quanto modo di essere, e non sintomo, l’autismo è un fenomeno di ordine qualitativo che si esprime in uno specifico tipo di distorsione relazionale rintracciabile nel rapporto del soggetto tanto con se stesso, quanto con il mondo e con gli Altri esseri umani. L’aspetto normalmente flessibile di questi rapporti viene perduto, ed essi assumono fissazione e rigidità. Questa modificazione qualitativa del movimento relazionale che va sotto il nome di autismo, traspare profondamente attraverso gli atti del soggetto, che appaiono inappropriati e stridenti non di per se stessi, ma in relazione alla situazione contestuale in cui vengono agiti, mostrando la perdita dell’intuizione della sintonia con l’ambiente (Parnas et al., 2002). 

“L’attività autistica consta di atti senza domani, di atti strani che si scontrano con la realtà, di atti sistematizzati secondo un rigido schema razionalistico, di atti congelati e fini a se stessi, di attività ripetitive: l’autista dà l’impressione allo stesso tempo di una tensione estrema e di un’acqua stagnante” (Gozzetti e Cappellari, 1999, p. 157). 

2.5. Disturbi del Sé sociale

L’accordo pre-cognitivo ed intuitivo con l’ambiente è ciò che determina la possibilità di avere un mondo in comune con cui sentirsi intuitivamente sintonizzati ma anche dal cui potersi ritagliare i propri spazi idiosincratici e personali “sani”, l’oscillazione tra se stessi e l’altro. È all’interno di questo movimento di “assimilazione-indifferenziazione” necessario alla formazione del soggetto come componente effettivo del proprio gruppo di appartenenza, della propria comunità, che prende forma la nostra identità. Il modo di essere definito “schizofrenia” è definibile come l’esito di uno sviluppo patologico di questa formazione personale: un’empasse del movimento di appropriazione individuale del proprio posto nella società. Nella psicosi non vi è più movimento fra “idionomia” ed “eteronomia”: l’oscillazione è cristallizzata rigidamente su uno dei due poli[3]. Ne risulta un’esperienza intersoggettiva del sé sociale schizofrenico peculiarmente deformata, esprimibile nel concetto di “crisi globale del senso comune” composta da quattro fenomeni che negli adulti schizofrenici si presentano spesso combinati (Stanghellini, 2006): 

-       Anomalie della sintonizzazione e del sensus communis

Gli umani entrano in contatto fra loro mediante interazioni efficaci, si capiscono l’un l’altro e comprendono le situazioni e l’ambiente in cui tali interazioni hanno luogo: tutto questo è “indecifrabile” e “misterioso” per lo schizofrenico, il quale prova un sentimento di estraneità nei confronti del mondo sociale dovuto alla mancanza di quella “base implicita, spontanea e irriflessa” di ordine pre-cognitivo necessaria per l’accordo con il contesto sociale. Alla mancanza di sintonizzazione pre-riflessiva, questi soggetti tentano di supplire mediante tentativi di “ri-sintonizzazione” riflessiva mediante l’osservazione dei comportamenti degli altri. Quello che manca non è l’interesse nei rapporti sociali, i quali anzi vengono studiati e dai quali il soggetto tenta di estrarre regole esplicite e meccaniche da poter applicare ai propri comportamenti, ma la base intuitiva ed implicita. 

-       Vulnerabilità eteronomica

La paura di una eccessiva caduta nel senso comune e nell’Altro dovuta alla perdita della propria identità: il rapporto io-Altro è polarizzato e i due estremi non sono avvicinabili, per il timore di una perdita di confine fra individualità e alterità a favore di quest’ultima. L’Altro è esperito come soverchiante e il soggetto teme di venirne schiacciato. 

-       Antagonomia

Il soggetto avverte la propria unicità e l’esalta ricercando attivamente qualsiasi cosa la possa sottolineare ed aumentare, fino alla costruzione di recinti fra se stesso e il senso comune, il quale viene rifiutato e disprezzato. Questa lotta verso le norme sociali nel tentativo di evidenziare la propria eccezionale unicità, si accompagna talvolta alla consapevolezza del carattere costrittivo di tale scontro: “più che una scelta, una necessità e una condanna”. 

-       Ipertolleranza della complessità semantica

L’accoppiamento implicito oggetto-significato, automatico e condiviso dalla propria comunità sociale, va perso. Lo schizofrenico si ritrova in una situazione di espansione semantica: un certo oggetto una certa parola possono assumere qualsiasi significato, e il soggetto può ritrovarsi in un’esasperata riflessione su di essi per tentare di coglierne il senso. 

2.6. Organo di senso o sapere proposizionale?

Sono questi quattro disturbi del sé sociale che complessivamente costituiscono la crisi del senso comune, ma cosa è il senso comune?

È una raccolta di “luoghi comuni”, credenze, procedure che donano ordine al mondo, una serie di conoscenze sulle situazioni sociali condivise dai membri della comunità di appartenenza, o consiste piuttosto in una sorta di “organo percettivo”, un “senso” appunto, una funzionalità psichica che permette di sentire e comprendere il mondo in comune e di sintonizzarci armonicamente con esso (Stanghellini, 2000b)? Queste diverse concettualizzazioni si pongono nello spazio fra due modi di pensare il senso comune: ad un capo troviamo le teorie che lo intendono principalmente come un sapere di tipo proposizionale, una collezione di conoscenze e metodiche condivise collettivamente, all’altro troviamo le teorie cosiddette “non-proposizionali” che rimandano alla concezione di sintonizzazione. Tutte queste interpretazioni sono corrette, e il senso comune è definibile sulla base della loro unione: è costituito tanto dal fenomeno per così dire “cognitivo” di memoria di conoscenza delle regole sociali, quanto dal fenomeno “percettivo” di sintonizzazione all’ambiente. Entrambi i livelli condividono la fondamentale caratteristica di essere impliciti e pre-riflessivi, intuitivi, ed entrambi subiscono una modificazione abnorme nella vulnerabilità e nella patologia schizofreniche. La parte non-proposizionale, ovvero la sintonizzazione emotiva, si pone come la condizione necessaria per l’acquisizione della parte del senso comune rappresentata dal sapere proposizionale (Stanghellini, 2006).

La prospettiva fenomenologica, tradizionalmente, ha evidenziato particolarmente la concezione di senso comune come organo di senso, ricettivo al mondo delle relazioni sociali, che fornisce le basi per la sintonizzazione con le situazioni che incontriamo nella vita di ogni giorno, con la condivisione del mondo e delle sue regole implicite ed esplicite, e che ci orienta nel rapporto con l’ambiente e con gli altri. La fenomenologia si scosta da una concezione prevalentemente “cognitivo-mentalistica” a favore di una di tipo “emotivo-affettiva” sulla quale si fonda l’intersoggettività come percezione “diretta”, “corporea”, delle emozioni vissute dall’Altro. Il senso comune si rivolge tanto agli oggetti fisici quanto a quelli psicologici, orientandoci attraverso entrambi grazie alla sua essenza di “organo di senso” immediato che sintonizza la nostra percezione alle situazioni sociali e alle esperienze emozionali degli altri. Da questo muove l’intersoggettività umana, ed è in questo senso che possiamo intendere la patologia schizofrenica come patologia dell’intersoggettività (Stanghellini G., 2006).

L’autismo schizofrenico, da Bleuler a Minkowski e attraverso lo studio di molteplici eminenti psicopatologi, è giunto ad essere concettualizzabile come un disordine che coinvolge diversi fenomeni e diversi livelli soggettivi (del Sé) e dell’intersoggettività. Nell’umano esperire tre dimensioni sono inseparabili: l’“io” (il Sé, la soggettività), il “noi” (l’“io” e l’“Altro” in relazione, l’intersoggettività) e “l’ambiente”. Nell’autismo schizofrenico, nella sua essenza di perdita di senso comune, tutte e tre queste dimensioni risultano in qualche modo danneggiate, essendo la sintonizzazione intuitiva con l’evidenza ovvia del mondo costituita essa stessa da tre momenti strettamente intrecciati e tra loro dipendenti: un pre-riflessivo senso di Sé (ipseità), una-preriflessiva sintonizzazione con gli altri, una pre-riflessiva connessione all’ambiente (Parnas et al., 2002).

Quello che nella condizione autistica schizofrenica viene quindi complessivamente a mancare è la sintonizzazione pre-concettuale, pre-cognitiva, intuitiva, immediata, ad ognuno dei tre livelli dell’esperienza umana.


PROSEGUI LA LETTURA   3. SÉ E INTERCORPOREITÀ: SINTONIZZAZIONE COME BASE DELL’INTERSOGGETTIVITÀ

Bibliografia

[1] Il termine “schizofrenia” significa letteralmente “mente divisa”. Introdotto da Bleuler (1911), a sostituzione del precedente kraepeliniano “dementia praecox”, esso rivela qual è in Bleuler il processo fondamentale dell’essenza schizofrenica, il “supposto unico meccanismo patogenetico di fondo: la scissione delle funzioni psichiche e l’allentamento dei normali vincoli e nessi associativi del pensiero. […] Nelle dicotomie bleuleriane […] l’autismo nella schizofrenia è un fenoemeno «secondario» rispetto al primario disturbo associativo, ma è «fondamentale » rispetto all’accessorietà di deliri e allucinazioni” (Ballerini, 2002, p. 63).

[2] Questo movimento è ben descritto dalla nozione di “ciclo dell’attività personale”, in cui sullo sfondo armonico della capacità sintonica si staglia quello che Minkowski ha chiamato lo “slancio personale”, che produce una rottura tra l’io e il mondo in cerca della propria originalità. Tale slancio è più o meno violento e la rottura prodotta è più o meno profonda. La drasticità e la comunicabilità di tale esperienza dipende dal superamento o meno di limiti che nella normalità lo slancio personale non supera mai: nel superamento di tali limiti lo slancio si configura come “malato”, totalmente staccato dalla logica del contatto vitale con l’ambiente. Questi limiti “sfuggono al pensiero discorsivo […] è l’intuizione (la sintonia) che ci guida nella vita” (Minkowski, 1953, p. 101). 

[3] Nella vulnerabilità alla psicosi maniaco-depressiva è predominante il polo sintonico e un atteggiamento eteronomico, nella vulnerabilità alla psicosi schizofrenica è predominante il polo schizoide e un atteggiamento idionomico. È nell’equilibrio fra differenziazione e conformismo che si trova la salute mentale. (Minkowski, 1953; Ballerini, 2002; Stanghellini, 2006)



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